Uno dei paradossi che caratterizzano il dibattito pubblico italiano sta nel fatto che, da un lato, il nostro Paese è ancora un importante paese industriale; a tutt’oggi, la seconda potenza manifatturiera dell’intero continente europeo, superata solo dalla Germania. Mentre, dall’altro lato, l’Italia non sembra percepirsi come tale, ovvero come una potenza manifatturiera. Ne segue che i temi relativi al mondo industriale e alle sue prospettive non occupano la posizione che meriterebbero nel nostro discorso pubblico.
Una delle conseguenze di questa singolare situazione è che gli intellettuali che dedicano tutte le proprie energie allo studio di questo mondo, sono magari seguiti all’interno di cerchie più o meno ampie di addetti ai lavori, ma rimangono poco conosciuti per il grande pubblico.
Crediamo di poter dire che sia stato questo il caso di Giuseppe Berta, Beppe per gli amici, lo storico dell’industria che è venuto a mancare, a Torino, il 3 maggio scorso. La sua prematura scomparsa, a 71 anni, non ha forse avuto l’eco di cui sarebbe stata degna. Va dunque riconosciuto alla Fondazione Luigi Einaudi di Torino il merito di aver organizzato, a ricordo di Berta, un convegno che si è svolto mercoledì scorso (e la cui registrazione è reperibile sul canale YouTube della stessa Fondazione).
“Uno studioso, un amico: Beppe Berta”: questo il titolo dell’incontro. Cui hanno partecipato dirigenti politici, come l’ex Sindaco Sergio Chiamparino, giornalisti, docenti universitari, archivisti, ovvero tutte persone che hanno avuto la ventura di conoscere Berta di persona, di frequentarlo e di discutere e lavorare con lui. La vita di Berta, nato a Vercelli il 28 agosto del 1952, si è svolta infatti lungo l’asse Milano-Torino tra università, giornali, fondazioni, centri studi e archivi d’impresa (strutture, queste ultime, cui dedicò particolare impegno e attenzione).
Associato di Storia moderna all’Università Bocconi di Milano, Berta fece i suoi esordi di studioso in Piemonte, dedicando – nella prima metà degli anni 80 del secolo scorso – diversi e successivi lavori a Adriano Olivetti e alla storia della sua azienda. Sempre a partire dal Piemonte, si occupò poi, in particolare, del GFT, il Gruppo finanziario tessile, e della Fiat.
Dall’incontro, è uscito il ritratto a più voci di uno studioso molto prolifico, autore di articoli, saggi e volumi, ma tutt’altro che chiuso nel mondo accademico. Anzi, capace di conoscere le imprese, oggetto dei suoi studi, dal loro interno, a partire dai loro archivi storici, e tuttavia capace anche di mantenere una grande indipendenza di giudizio.
Paolo Bricco, noto giornalista del Sole 24 Ore, che di Berta è stato anche amico personale, ha osservato, in particolare, che Berta ha svolto la sua attività non solo di storico, ma di analista dei mutamenti in corso nella realtà industriale italiana, con “un piglio quasi ottocentesco”. Intendendo, con questo, che Berta “riusciva ad analizzare i fenomeni sociali ed economici in corso usando elementi non quantitativi”. Un taglio storiografico, il suo, basato insomma su un approccio nutrito di connessioni con “letteratura, filosofia e sociologia”; un approccio che rifiutava, quindi, di restare prigioniero di valutazioni ristrette all’analisi dei bilanci aziendali.
Ma, al di là di questioni di metodo, pur fondamentali, viene da chiedersi quale ruolo abbia svolto Berta nell’ambito del pur circoscritto dibattito relativo ai destini della nostra industria. “Negli anni 90 – ci dice lo stesso Paolo Bricco, da noi direttamente interpellato – Berta sostenne una posizione opposta a quella di Luciano Gallino. Infatti, mentre Gallino diceva, sostanzialmente, che la grande industria italiana era finita, Berta portava avanti una tesi diversa. Secondo lui, dentro ai processi della globalizzazione, gran parte di ciò che si era perso nelle grandi imprese, poteva essere recuperato, e veniva anzi recuperato, dalla media impresa internazionalizzata”.
Dal 1996 al 2002, Berta fu anche responsabile dell’Archivio Storico Fiat. E a questa, che fu la più grande delle nostre grandi imprese, lo storico piemontese ha anche dedicato numerosi studi. “Berta – ci dice ancora Paolo Bricco – mise in luce tutti i limiti del modello Fiat, mostrando che lo sviluppo degli anni ’90, quello che aveva cercato di rivolgersi a Brasile e Turchia, aveva dato luogo a una forma povera di internazionalizzazione.”
“Dopo di che, per venire agli anni 2000 – prosegue Bricco – al di là dei meriti soggettivi di Marchionne, Berta vide soprattutto, nei limiti dell’azione del nuovo Amministratore delegato, i limiti dell’azionista. Un azionista che aveva cominciato a ridurre la sua presenza nell’auto, e in Italia, in maniera sempre più significativa.”
Tornando alla figura umana di Berta, va detto che è scomparso al termine di una lunga malattia. Già da tempo il suo contributo analitico si era dunque rarefatto. E in una fase di reiterate crisi industriali, o comunque di vari sommovimenti aziendali, come quella che stiamo vivendo, la sua mancanza si fa sentire in modo più acuto.
Restano le sue opere, tra cui ci limitiamo a ricordare Mirafiori. La fabbrica delle fabbriche (1998), La Fiat dopo la Fiat. Storia di una crisi 2000-2005 (2006), L’Italia delle fabbriche. La parabola dell’industrialismo italiano nel Novecento (2013), La via del Nord. Dal miracolo economico alla stagnazione (2015), Le idee al potere. Adriano Olivetti tra la fabbrica e la comunità (2015) e Che fine ha fatto il capitalismo italiano (2016).
Fernando Liuzzi