Michele Tiraboschi – Professore Associato di Diritto del Lavoro – Università di Modena e Reggio Emilia
E’ opinione diffusa, avallata anche da autorevoli commentatori, che il dibattito politico-sindacale, avviato in questi giorni su iniziativa del Governo, in merito alla riforma della disciplina dell’orario di lavoro possa condurre, presto e agevolmente, a una nuova disciplina della materia. In effetti, a prima vista, la questione non pare di difficile soluzione in considerazione della presenza di una specifica traccia normativa di riferimento, individuata dal legislatore quale criterio a cui informare il nuovo regime dell’orario di lavoro. L’articolo 22 della legge comunitaria 2001 (L. n. 39/2002) nel delegare al Governo l’attuazione delle direttive europee in materia di orario di lavoro ha infatti individuato, quale principio direttivo, “la ricezione dei criteri di attuazione di cui all’avviso comune sottoscritto dalle parti sociali il 12 novembre 1997”.
In questi termini l’intera problematica sembrerebbe quindi ridursi a una semplice e lineare “trasposizione” di quanto già deciso in sede collettiva, sulla scorta dell’indicazione contenuta nel Trattato di Amsterdam – successivamente ripresa nel Patto per lo sviluppo e l’occupazione del 22 dicembre 1998 e ora avallata anche nel Libro Bianco sul mercato del lavoro – che individua nelle intese tra le parti sociali (sia pure a livello di semplice “filtro”) lo strumento prioritario affinché gli Stati membri adempiano agli obblighi comunitari.
In questa prospettiva l’unico elemento di difficoltà sarebbe rappresentato dalla possibilità del Governo, espressamente prevista dal menzionato articolo 22, di “apportare modifiche e integrazioni al decreto legislativo 26 novembre 1999, n. 532, in materia di lavoro notturno e al decreto-legge 29 settembre 1998, n. 335, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 novembre 1998, n. 409, in materia di lavoro straordinario, nonché alle singole discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, con particolare riferimento al commercio, turismo, pubblici esercizi ed agricoltura”. Disposizione, quest’ultima, che nasce sia da un rilevo di non completa e corretta recezione dei precetti comunitari per quanto attiene a questi specifici profili, sia probabilmente dalla considerazione che l’avviso comune del 1997, in quanto sottoscritto dalla sola Confindustria, non prende adeguatamente in considerazione le esigenze di altri settori, caratterizzati da una diversa struttura produttiva e da una diversa organizzazione del lavoro.
In realtà tali rilievi non esauriscono i profili di criticità sottesi a una mera recezione dei contenuti dell’avviso comune.
Innanzitutto, occorre rilevare che esso, diversamente dall’accordo interconfederale del 6 novembre 1996 per il recepimento della direttiva 94/45/CE riguardante l’istituzione di un comitato aziendale europeo (CAE) o di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie, non è stato reso in forma di articolato normativo, dando quindi luogo a problemi interpretativi di ordine sistematico. Ciò si riflette anche nella mancanza di un’opera di soddisfacente razionalizzazione della materia. Si pensi per un verso alla assenza di una esauriente attività definitoria (manca infatti la definizione di orario di lavoro) e, per l’atro verso, ai continui (ed eccessivi) richiami alla vigente disciplina di cui al RD n. 692/1923.
Si consideri inoltre che la stessa abrogazione (contenuta nell’avviso comune) dei limiti giornalieri di cui all’art. 1 D.L. n. 692/1923 potrebbe determinare l’insorgenza di rilevanti problemi. Problemi, peraltro, non tanto di compatibilità con il dettato costituzionale, come pur sostenuto da alcuni osservatori: il principio della riserva di legge di cui all’art. 36 Cost. sembra infatti poter essere soddisfatto, da una parte, dalla esistenza di un principio giurisprudenziale di ragionevolezza, dall’altra parte, dalla disposizione sui riposi consecutivi, contenuta nell’avviso comune, in cui si evidenzia implicitamente un limite legale di 13 ore. Piuttosto sono evidenti taluni problemi di compatibilità con il dettato comunitario: l’abrogazione del limite delle 8 ore giornaliere sembrerebbe infatti, almeno secondo parte della dottrina, configurare una disciplina peggiorativa rispetto a quella vigente, in violazione quindi della clausola di non regresso di cui all’art. 18 della direttiva n. 1993/104/CE. Senza contare che, anche a voler superare questa obiezione, sul presupposto della non autonomia del limite giornaliero rispetto a quello settimanale, l’avviso comune non sarebbe comunque perfettamente conforme agli obiettivi comunitari di contenimento dell’orario di lavoro laddove non prevede, in contrasto con l’art. 6 della menzionata direttiva, una limitazione della durata massima settimanale di lavoro.
Ulteriore profilo di criticità concerne il fatto che l’avviso comune si riferisce esclusivamente ai contenuti della originaria direttiva n. 1993/104/UE, non tenendo quindi conto di talune significative modifiche e integrazioni apportate in materia dalla direttiva n. 2000/34/UE che ha esteso il campo di applicazione anche a quei settori precedentemente esclusi. La mera ricezione dell’avviso comune costituirebbe dunque una trasposizione solo parziale del dato comunitario. Da un lato, infatti, si esclude espressamente dal suo campo di applicazione i settori del trasporto aereo e ferroviario; dall’altro, non si fa alcun riferimento all’attività dei medici in formazione e del personale marittimo. Settori, tutti quelli appena menzionati, espressamente invece regolamentati dal legislatore comunitario.
Il più rilevante elemento di criticità sembra tuttavia profilarsi alla luce della recente riforma del Titolo V della Costituzione, che, nel riscrivere l’articolo 117 Cost., ha completamente ridisegnato il sistema di ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regione. In particolare, il comma 3 dell’art. 117 Cost., assegnando alle Regioni potestà legislativa concorrente in materia di “tutela e sicurezza del lavoro” pare infatti attribuire alle stesse Regioni competenza legislativa concorrente in materia di trasposizione del dato comunitario in materia di orario di lavoro (per l’impostazione del problema cfr. M. Biagi, Il lavoro nella riforma costituzionale, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 2/2002 e anche A. Russo, La disciplina dell’orario di lavoro: un inventario critico per la trasposizione della direttiva n. 1993/104/UE, ivi, n.3/2002).
Al di là, infatti, del dibattito dottrinale circa l’inclusione della diritto del lavoro sostanziale nella espressione “tutela e sicurezza del lavoro” occorre sottolineare che la direttiva 93/104 CE non disciplina in sé l’orario di lavoro, ma quegli aspetti della organizzazione dell’orario connessi alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Questo è del resto il fondamento giuridico e l’oggetto della direttiva, come chiarito nell’articolo 1, in cui si afferma che “la presente direttiva stabilisce prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro”.
Ma vi è di più. Non solo l’oggetto della direttiva – volta a introdurre prescrizioni minime – ben si sposa con la nuova logica del 117 Cost. che affida allo Stato la determinazione dei principi fondamentali, ma questo profilo è chiarito nello stesso avviso comune del 1997 laddove si afferma che “l’attuazione della direttiva 93/104/CE in materia di orario di lavoro si informa all’obiettivo di adeguare – per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori – la disciplina dell’organizzazione dell’orario di lavoro”.
Occorre del resto anche ricordare che tra le materie oggetto di legislazione concorrente, il comma 3 del 117 indica “i rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni”. Di qui la necessità di avere riguardo ai livelli essenziali delle tutele, al di sopra dei quali ben potranno esercitarsi le funzioni legislative concorrenti delle Regioni riguardanti la tutela e sicurezza del lavoro (nei limiti concessi – e dunque governati – dalla legge cornice). La legge comunitaria (L. n. 39/2002) precisa infatti che i decreti legislativi adottati nelle materie di competenza legislativa regionale perdono efficacia (se non si tratta di prescrizioni minime essenziali) alla data di entrata in vigore della normativa di attuazione di ciascuna regione e provincia autonoma.
In questa prospettiva, l’impostazione centralista dell’avviso comune potrebbe quindi non conformarsi perfettamente alla normativa costituzionale, necessitandosi di una rilevante opera di ricognizione al fine di distinguere le parti riconducibili al concetto di principio fondamentale previsto dall’articolo 117 comma 3 della Costituzione da quelle che, invece, possono essere attribuite alla competenza concorrente. Del resto è da rilevare che la stessa legge comunitaria 2001, pur non menzionando espressamente la necessità di assegnare alle Regioni potere legislativo in materia di orario, pare prendere specificatamente in considerazione gli avvenuti mutamenti del quadro normativo. Ai sensi infatti della lett. f), art. 2, L. n. 39/2002, “i decreti legislativi assicureranno in ogni caso che, nelle materie trattate dalle direttive da attuare, la disciplina disposta sia pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime, tenuto anche conto delle eventuali modificazioni comunque intervenute fino al momento dell’esercizio della delega”. Tale criterio sembra quindi poter relativizzare l’avviso comune del 1997, consentendo cioè di apportare quelle modifiche necessarie ad adeguare la disciplina ivi contenuta al nuovo quadro legale configuratosi in seguito alla riforma del Titolo V Cost.
La formulazione di un avviso comune, così come richiesto dal Governo alla parti sociali per dare corso alla delega di cui alla legge comunitaria dello scorso anno, non pare dunque un esercizio particolarmente agevole, anche in ragione del probabile contrasto sul senso da assegnare all’avviso comune da parte delle associazioni datoriali che non lo hanno sottoscritto. Tuttavia, se non si vuole lasciare una materia tanto delicata nella totale incertezza del diritto applicabile (sia nei rapporti con l’ordinamento comunitario che nei rapporti con le Regioni), appare quanto mai opportuno affrontare consapevolmente e con coraggio questo nodo critico del “federalismo”, mediante la definizione di una legge nazionale cornice sulle prescrizioni minime in materia di orario di lavoro che possa rappresentare un buon esempio di come applicare pragmaticamente le indicazioni contenute nel nuovo Titolo V della Costituzione. Solo con atteggiamento pragmatico e realista si può infatti uscire dalla sabbie mobili in cui è caduta la dottrina, nella defatigante opera di chiarificazione di un concetto tanto oscuro quanto problematico quale quello della “tutela e sicurezza del lavoro” contrapposto a quello di “ordinamento civile”. Come scriveva Marco Biagi (Il lavoro nella riforma costituzionale, cit., pag. 160), “impegnarsi ad oltranza in una actio finium regundorum tra tali formulazioni approderebbe, come già evidenziato dal dibattito di questi primi mesi, a risultati alquanto improduttivi”.