Enzo Biagi, nel ricordare i suoi colloqui con Pier Paolo Pasolini, sottolineava soprattutto una frase: “Vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più squallido. Non ho sogni, quindi non mi disegno neppure una visione futura. Vivo un giorno per l’altro, senza quei miraggi che sono alibi. La parola speranza è completamente cancellata dal mio vocabolario”. In queste parole, il giornalista non leggeva però una rinuncia a lottare ma una prova di innocenza e un bisogno di verità. Tanto da farle sue per ribadire che “una certa Resistenza non è mai finita. C’è sempre da resistere a qualcosa, a certi poteri, a certe promesse, a certi servilismi”.
Pasolini, in effetti, non smise mai di opporsi allo strapotere del conformismo e non cessò di battersi per ogni libertà di scelta. Disperava, ma non si arrendeva. Ha pagato con la vita l’impossibilità di essere accolto nell’ipocrita alveo della presunta normalità, rivendicava con doloroso orgoglio il bisogno di essere altro rispetto al pensiero dominante, borghese, cattolico o comunista che fosse. Il suo era un continuo viaggio interiore in parallelo con la sofferente contesa esteriore, alla ricerca di una trasmutazione che lo mettesse in sintonia con una società cieca e crudele. E gli archetipi dominanti si sono rivelati più forti della sua potenza creativa.
Questo impulso irrefrenabile ad uscire dal seminato dell’ortodossia esistenziale, lo rende in qualche modo simile ai personaggi di Joyce. Un parallelo che può apparire forzato e bizzarro ma che viene sollecitato dall’incrocio di un doppio centenario. Il 2 febbraio del 1922 veniva pubblicato per la prima volta l’Ulisse, il 5 marzo dello stesso anno nasceva l’autore di “Una vita violenta”.
Nel suo blog, Marco Casùla ricorda che dal 1960 al 1965 Pasolini curò una rubrica di corrispondenza sul settimanale Vie Nuove, legato al Pci. Nel numero 48, 3 dicembre 1960, sollecitato da un lettore a dare un giudizio su Joyce, ne rimarcò il “grande sommovimento linguistico”: “Esso infatti indica la strada di un tipo di oggettività che non può essere quella ottocentesca, positivistica, scientifica e richiedente una sorta di indiscussa fiducia sulla realtà oggettiva ammessa da tutti della vita umana[…] E’ entrato non nel suo io ma nell’io di un altro uomo, diverso da lui psicologicamente e socialmente: non ha detto cioè né egli fece né egli andò, né io feci, io andai, ma qualcosa che sta in mezzo: la mimetizzazione, la ricostruzione in laboratorio della corrente di pensieri di un altro essere umano studiato nella sua personale realtà”.
Ecco, questa capacità mimetica diventa il grimaldello per rompere la gabbia delle convenzioni. E allora il regista di “Accattone” e di “Uccellacci e uccellini” può essere paragonato, già sentiamo le grida indignate dei chierici letterari, a Stephen Dedalus. Il quale, ha scritto Giorgio Melchiorri nell’introduzione mondadoriana dell’Ulisse, “è l’idealista alla ricerca di valori spirituali, che si ribella alla quotidianità dell’esistenza nel tentativo di trovare una sua coerenza intellettuale”. Il viaggio, l’esilio, la ricerca, la sconfitta.
Il monologo interiore del giovane dublinese sdraiato sulla spiaggia potrebbe essere condiviso dal cantore dei ragazzi di vita. “Touch me. Soft eyes. Soft soft soft hand. I am lonely here. O touch me soon, now. What is that word known to all men? I am quite here alone. Sad too. Touch, touch me”. La parola nota a tutti gli uomini è amore. In ogni accezione. Compreso desiderare il bene per qualcun altro: “Amor vero aliquid alicui bonum vult…”. (citazione di Tommaso d’Aquino tralasciata nelle vecchie edizioni).
I bagliori di guerra sull’Ucraina, il costo dell’energia, le bollette, l’inflazione, i licenziamenti, l’ondeggiare della pandemia, la protervia dei no vax. E poi le discussioni infinite, la crisi dei partiti, la legge elettorale, la giustizia, i referendum, i fondi europei, le mani della mafia sull’economia, le truffe con il superbonus per l’edilizia, le prove scritte alla maturità, le violenze di gruppo, la questione salariale. Noi che desideriamo per gli altri?
Poi ci sono le miserie quotidiane. Come insegna la piccola posta sbirciata da Leopold Bloom durante la visita ad un giornale: “Dear Mr Editor, what is a good cure for flatulence?”. Ecco, signor Direttore, qual è un buon rimedio per la flatulenza? Chissà che avrebbe risposto Pasolini nella sua rubrica delle lettere.
Marco Cianca