di Paolo Feltrin – Docente di Scienza della Politica all’Università di Trieste
1. Come è noto, il sistema delle relazioni sindacali italiane è sempre stato caratterizzato da un altissimo grado di politicizzazione, intendendo con questo termine una elevata compenetrazione (che in molti casi assume le vesti della con-fusione) tra arene istituzionali, arene delle relazioni sindacali e arene politico-partitiche. A questa politicizzazione delle relazioni sindacali nel nostro paese concorrono molte variabili. Senza pretesa di completezza, interessa qui sottolinearne almeno tre.
La prima causa di politicizzazione è costituita dal pluralismo sindacale, il quale per forza di cose deve richiamarsi a matrici e retroterra politico-culturali più ampi, con riferimenti inevitabilmente partitici (si pensi alla matrice originaria socialcomunista, socialdemocratica e cattolica del sindacalismo postbellico).
La seconda causa chiama in gioco la scarsa legittimazione delle classi politiche (e più di recente degli stessi partiti politici), con una evidente tentazione a mettere i piedi nel piatto delle relazioni sindacali a fini di consenso elettorale di medio-lungo periodo. Storicamente questa è stata la funzione delle correnti sindacali, ben presenti in tutti i partiti italiani.
Una terza causa di politicizzazione dell’arena delle relazioni sindacali riguarda la debolezza dei governi e delle istituzioni rappresentative, anche a causa del sistema elettorale, con l’evidente necessità di ricorrere a forme più o meno esplicite di “scambio politico” (secondo il modello suggerito a suo tempo da Pizzorno).
Detto questo, bisogna anche ricordare che un certo grado di politicizzazione è intrinseco alle relazioni sindacali, sia per il tipo di argomenti che in questa arena vengono trattati e che riguardano aspetti decisivi delle vita di tutti cittadini, sia perché fare sindacato ha una sua intrinseca valenza politica, sia infine perché le motivazioni al “mestiere sindacale” sono almeno in parte sovrapponibili alle motivazioni alla militanza politica. Tuttavia in altre esperienza nazionali, dalla presenza di esecutivi forti e di una più netta distinzione tra le arene di politiche pubbliche e l’arena delle relazioni sindacali discendono due conseguenze: una maggiore spoliticizzazione delle relazioni sindacali; una più chiara identificazione politica dei sindacati. Infatti, un’unica matrice politica di sindacati nazionali unici (o tendenzialmente unici), oppure la mediazione tra anime politiche al loro interno, concorrono a depoliticizzare l’arena delle relazioni sindacali. Al contempo ciò non impedisce ai sindacalisti di essere eletti in parlamento all’interno di liste di partito. Sembra un paradosso, ma va ricordato che di norma nell’esperienza europea i sindacalisti siedono nei parlamenti nazionali, quasi che proprio per questo divenga più facile separare le due anime – quella politica e quella sindacale – sempre presenti nei dirigenti sindacali.
2. Abbiamo chiarito come la politicizzazione sia un tratto storico delle relazioni sindacali italiane, sia che si manifesti come tutela dei partiti sui sindacati sia che si manifesti come tentazioni al laburismo sindacale. Della prima tendenza rimane rivelatore lo scontro Berlinguer-Lama nel 1984 e il tentativo della segreteria Fanfani nel primi anni settanta di tutelarsi da una eventuale scelta “socialista” della Cisl; della seconda tendenza rinveniamo più di una traccia nella tentazione al partito che ha connotato tutti i leader sindacali degli anni novanta (non solo D’Antoni, ma anche Larizza e, da ultimo, Cofferati).
Va anche aggiunto che la tendenza unitaria del sindacalismo italiano ha un prezzo: la difficoltà a confrontarsi con governi che non hanno una qualche forma di “placet” a sinistra o, alternativamente, il fatto che accordi concessivi possono essere fatti solo in presenza di governi “coperti” a sinistra. Della prima tendenza sono da ricordare i casi della rottura del 1948, la vertenza sul conglobamento di metà anni cinquanta, la rivolta del luglio 1960, la notte di San Valentino del 1984 e il probabile “patto per l’Italia” del 2002. Della seconda tendenza, vanno ricordato gli accordi con i governi ciellenisti dell’immediato dopoguerra, le concessioni sindacali durante il periodo dell’unità nazionale, l’accordo del 1993 con il governo Ciampi e del 1996 con il governo Prodi.
Insomma, il sindacato italiano non è tanto in difficoltà con il bipolarismo: anche nella sua versione maggioritaria, quella degli anni novanta, ormai lo conosce bene e ci convive da quasi un decennio. A mettere in difficoltà e in fibrillazione il sindacalismo italiano sono i governi non appoggiati dalla sinistra politica. La ragione è semplice: proprio in questo infatti consiste il nocciolo duro del fenomeno che abbiamo definito come politicizzazione delle relazioni sindacali italiane.
Il problema è ovviamente più acuto per la Cgil (specularmente con governi di unità nazionale, tecnici, o di sinistra, ad avere le maggiori difficoltà sono Cisl e Uil). Nel caso del maggior sindacato italiano, la riflessione culturale interna degli ultimi quindici anni ha aggiunto un ulteriore elemento di rigidità. La continuità ideologica interna (da Ingrao a Trentin, da Cofferati a Bertinotti) è affidata infatti ad una nozione forte del concetto di “diritti”, un concetto mai così enfatizzato nella tradizione sindacale italiana e straniera. Il rischio evidente è di sottovalutare le nozioni di “equità salariale”, di “tutele” e di “rapporti di forza”, concetti più consoni delle relazioni sindacali, a favore di una visione politico-costituzionale del governo delle relazioni di lavoro.
3. A mio parere è questa deriva politico-costituzionale del modo di intendere le relazioni sindacali che ha aggravato la storica politicizzazione delle arene di relazioni sindacali nel nostro paese. Un governo non di sinistra, che per di più intende mettere mano ai “diritti” dei lavoratori (ovviamente indisponibili) non può che produrre quasi per definizione accordi separati e la rottura dell’unità sindacale. Così è sempre stato in passato, così non potrà che accadere in futuro.
Cosa fare per cambiare la situazione? Le strade sono più o meno sempre le stesse: spoliticizzare le relazioni sindacali; oppure depoliticizzarle; oppure ancora, se si può usare un’espressione poco felice, consensualizzarle.
La prima strada, ampiamente impraticabile oggi, richiede un sindacato unitario e una migliore divisione dei ruoli tra mestieri di rappresentanza politica e sindacale dei lavoratori, non tanto per quanto riguarda la materia del contendere (dove le distinzioni sono sempre opinabili), quanto piuttosto le relazioni tra consenso partitico, consenso ai governi, consenso ai sindacati. Nell’esperienza storica italiana, la spoliticizzazione ha funzionato solo in presenza di governi che avevano ottenuto il via libera da sinistra.
La seconda strada è quella sperimentata dai governi tecnici, attraverso una forte depoliticizzazione delle relazioni sindacali, grazie a stratagemmi vari messi in campo da partiti e sindacati (valga per tutti il ricordo dei governi Amato e Ciampi dei primi anni novanta).
La terza strada richiede un ruolo più forte dei partiti, in quanto capaci di mettere in luce un terreno condiviso, bipartisan, un interesse nazionale che sta sopra e precede qualsiasi divisione politico-partigiana. Ma i partiti sono troppo acciaccati con ogni probabilità per fare questo sforzo. E, del resto, se non fossero così mal presi non ci sarebbe neppure la tentazione ricorrente del laburismo sindacale.
Conclusione: con ogni probabilità, in perfetta continuità con la tradizione italiana, la politicizzazione delle relazioni sindacali italiane continuerà a produrre un intreccio inestricabile tra politica e sindacato, ed i successi e le sconfitte in entrambe le arene non potranno che andare di pari passo. L’unico spiraglio di ottimismo sembra venire da un possibile decentramento delle relazioni sindacali, non fosse altro perché, anche nell’ultimo anno, a livello decentrato il grado di politicizzazione risulta radicalmente più basso, quasi ininfluente.