Nel 2023 ricorreva il cinquantesimo anniversario della sottoscrizione del contratto nazionale dei metalmeccanici del 1973.
Fin qui, qualcuno, digiuno della storia della contrattazione sindacale italiana, potrebbe obiettare che non vi sia nulla di particolare nel ricordare quella data.
In fondo, e per fortuna, nel nostro Paese c’è una ricca storia di rinnovi contrattuali, che rende questo atto quasi fisiologico e connaturato alla normale dialettica sociale esistente in una società aperta come la nostra.
Tuttavia quel rinnovo ebbe un significato importante e rilevante per la qualità della contrattazione sindacale italiana.
Per la prima volta in un contratto collettivo veniva inserito un principio fondamentale: il diritto dei lavoratori di poter usufruire di un particolare “monte ore” pari a 150 ore retribuite annue per partecipare a iniziative di formazione, non solo professionale.
Non era il classico diritto allo studio, che pure in molti contratti era regolato con forme specifiche di agevolazioni per coloro che venivano definiti “lavoratori-studenti”.
I quali, spesso, a prezzo di non pochi sacrifici, desideravano migliorare la propria posizione sociale.
Si pensi agli studenti dei corsi serali che, finita l’attività lavorativa, frequentavano i corsi professionali o anche la scuola secondaria per ottenere la “maturità”, per lo più in materie tecniche.
Le “150 ore” erano invece la possibilità “durante l’orario di lavoro” di frequentare corsi anche di cultura generale non proprio attinente alla propria attività lavorativa (per molti lavoratori e lavoratrici, per lo più immigrati, questo voleva dire conseguire l’agognato diploma di terza media!).
In questo senso la scuola, o meglio alcuni istituti scolastici, si attrezzarono per fornire specifici percorsi formativi a questi lavoratori e lavoratrici, ormai adulti, che cercavano di completare il proprio curriculum scolastico, interrotto per lavorare, fin da giovani “nei campi e non solo nelle officine”.
La scuola per la prima volta si accorse “del mondo del lavoro reale” delle sue contraddizioni, delle sue lotte e delle sue asperità. Molti “insegnanti” impararono più di quanto i loro libri erano in grado di insegnare.
Fu una enorme “palestra democratica”. Un grande momento di crescita culturale per tutti e portò con sé molte speranze.
Non fu facile introdurre questo diritto nel testo contrattuale.
Le aziende obiettarono la propria estraneità al percorso formativo che, secondo loro, avrebbe dovuto essere a carico esclusivamente della così detta “istruzione pubblica”, quasi a rivendicare una netta separazione tra il mondo del lavoro e quello della formazione, non solo professionale.
Lo dico perché ricordo una obiezione che venne fatta a Bruno Trentin, allora segretario generale della Fiom-Cgil “Voi pretendete che le aziende paghino anche una formazione che non ha alcuna attinenza con l’attività specifica del lavoratore”, Trentin rispose seccamente: “ Noi vogliamo solo permettere ad un metalmeccanico, se vuole, di imparare a suonare il violino!”.
Fu un momento, oggi si direbbe “alto” del conflitto sociale, il rinnovo contrattuale del 1973 fu uno dei più difficili nella storia di quella categoria, ma fu anche un momento esaltante di “protagonismo sociale”.
Peccato che nel 2023 quasi nessuno, né dei sindacati, né delle associazioni datoriali, che pure ebbero, insieme, il merito di sottoscrivere quell’intesa, abbia voluto ricordare, con la giusta enfasi, i 50 anni passati e i risultati di quell’accordo.
Luigi Marelli