L’accordo separato siglato il 15 giugno in Fiat, e avente ad oggetto la distribuzione del lavoro all’interno dello stabilimento di Pomigliano D’Arco, ha rappresentato uno dei passaggi più importanti del confronto sindacale di questi ultimi anni.
L’asprezza di tale confronto si è tradotta, dapprima, in una forte ostilità nei confronti del testo dell’accordo da parte della FIOM-CGIL, che si è spinta fino al punto di definirlo “non un accordo, ma un ricatto”.
In seguito, nella necessità di dar voce ai cinquemila dipendenti dello stabilimento, interpellandoli, con apposito referendum, sull’opportunità di dare attuazione ai contenuti dello stesso accordo.
L’esito incerto del referendum ha lasciato inalterata la consapevolezza che, al di là dell’indubbia importanza dell’accordo, esso sarà caratterizzato da notevoli difficoltà di attuazione, legate ai gravosi sacrifici imposti agli operai.
Sacrifici che, tuttavia, rappresentano la strada probabilmente unica, di certo necessaria, per salvaguardare i livelli di occupazione all’interno dello stabilimento coinvolto e, più in generale, nell’ambito di un’area territoriale depressa, da un punto di vista occupazionale, quale quella campana.
In un tale contesto, l’attuazione dell’accordo dovrà confrontarsi con le censure già avanzate dalla Fiom all’indomani dell’accordo: dalla presunta compressione del diritto di sciopero ad una illegittima gestione del fenomeno dell’assenteismo; da presunte violazioni in materia di turni, di orari di lavoro e, più in generale, dell’organizzazione del lavoro, ad ulteriori censure circa la violazione di norme in materia di formazione sul lavoro.
Di seguito si analizzano, partitamente, i singoli profili censurati dalla FIOM-CGIL, evidenziando se e in che limiti tali censure colgano nel segno.
Una delle principali critiche mosse dalla Fiom all’accordo consiste nella presunta compromissione del diritto di sciopero del lavoratore, garantito costituzionalmente.
A ben vedere, però, l’accordo non sembra incidere in alcun modo su tale diritto costituzionale.
Piuttosto, in ossequio al noto principio per cui pacta sunt servanda, l’art. 16 dell’accordo si limita ad istituire una Commissione Paritetica di Conciliazione deputata a valutare il pieno rispetto dei contenuti dell’accordo stesso da parte delle rappresentanze sindacali che lo hanno espressamente sottoscritto.
La stessa disposizione prevede poi che, in caso di mancato rispetto dell’accordo da parte delle rappresentanze sindacali firmatarie, l’azienda, a sua volta, potrà ritenersi dispensata dal rispetto degli obblighi nascenti, a suo carico, dall’accordo stesso.
Il limite quindi è evidentemente di poco conto e grava esclusivamente sulle rappresentanze che, una volta sottoscritto l’accordo, e limitatamente alle tematiche oggetto dello stesso, vogliano rimetterlo in discussione.
Non dunque una indebita compressione del diritto di sciopero, costituzionalmente garantito, ma una opportuna responsabilizzazione dei sindacati firmatari dell’accordo, a salvaguardia della sua corretta attuazione.
La Fiom contesta poi l’illegittimità dell’art. 8 dell’accordo, che, a fronte di “forme anomale di assenteismo non riconducibili a forme epidemiologiche”, dispensa l’azienda dal corrispondere l’indennità di malattia.
La stessa disposizione accorda all’azienda la facoltà di chiudere lo stabilimento ed imputare l’assenza dei dipendenti a permessi residui o ferie, laddove, “in concomitanza con le tornate elettorali politiche, amministrative e referendum”, sia compromesso il normale svolgimento dell’attività produttiva.
Ma, per quanto gravosa, questa disposizione appare legittima in quanto, come riconosciuto dall’accordo stesso, nello stabilimento di Pomigliano il livello di assenteismo ha effettivamente raggiunto livelli anomali.
Di conseguenza, il sacrificio si giustifica, ancora una volta, con l’esigenza di non compromettere l’occupazione di cinquemila dipendenti per salvaguardare l’interesse, evidentemente non primario, di chi si vuole assentare.
Ed ancora, la Fiom contesta l’illegittimità dell’art. 1 dell’accordo, nella parte in cui impone turni a suo dire troppo gravosi per i dipendenti, dell’art. 2 dell’accordo, nella parte in cui prevede un maggiore monte ore di lavoro straordinario e dell’art. 5, nella parte in cui detta ulteriori disposizioni in materia di organizzazione del lavoro.
Tuttavia, proprio perché l’innalzamento dei livelli di produttività è condizione indispensabile per il mantenimento dei livelli occupazionali nell’area campana, anche sotto questo profilo è comprensibile l’esigenza della Fiat di incrementare i turni di lavoro in occasione dei picchi di attività.
La Fiom contesta poi l’illegittimità dell’art. 4 dell’accordo nella parte in cui prevede che, in caso di “perdite derivanti da eventuali fermate tecniche e produttive”, sia possibile ricorrere a forme di mobilità interna dei lavoratori senza una previa consultazione sindacale.
Senonché, anche tale disposizione si giustifica con la necessità di agevolare l’innalzamento dei livelli di produttività e, di conseguenza, di mantenere inalterati i livelli occupazionali nell’area campana.
In vista di tali indispensabili esigenze, i sindacati stipulanti hanno acconsentito ad un temporaneo e straordinario arretramento della propria funzione consultiva preventiva.
Questo anche perché subordinare alla previa consultazione sindacale la necessità di garantire una continuità nell’attività produttiva avrebbe quale unico effetto, quello di rallentare lo svolgimento dell’attività e di incrementare le perdite legate al particolare momento di paralisi produttiva.
Ovviamente, tale momentaneo accantonamento della funzione consultiva sindacale opera solo nella misura in cui si versi in una condizione di assoluto pregiudizio per la prosecuzione fisiologica dell’attività produttiva, restando impregiudicate, in ogni altra ipotesi, le ordinarie funzioni consultive.
Inoltre, la Fiom contesta l’illegittimità dell’art. 10 dell’accordo, nella parte in cui abolisce, a partire dal 1° gennaio 2011, alcune specifiche voci retributive, quali le paghe di posto, l’indennità disagio linea, il premio mansione e i premi speciali.
Si tratta, tuttavia, di una disposizione legittima, dal momento che il mantenimento dei livelli occupazionali nell’area campana giustifica l’abolizione, a decorrere da una certa data, di voci retributive, peraltro di modesta entità.
Da ultimo, e al contrario delle disposizioni analizzate in precedenza, l’accusa sollevata dalla Fiom circa i percorsi di formazione dei lavoratori in Cassa Integrazione potrebbe cogliere nel segno.
In particolare, la Fiom contesta che l’esclusione di qualsiasi forma di sostegno al reddito a carico dell’azienda ed in favore dei lavoratori in CIGS che partecipino a corsi di formazione, sembrerebbe contrastare con l’art. 1 della legge n. 102 del 2009.
A bene vedere, tale disposizione prevede che al lavoratore in GICS che partecipi a corsi di formazione spetta a titolo retributivo da parte dei datori di lavoro la differenza tra trattamento di sostegno al reddito e retribuzione.
Pertanto, il citato art. 6, rispetto alla previsione legislativa, sembrerebbe introdurre un trattamento peggiorativo nei confronti del lavoratore e, come tale, inammissibile.
In conclusione, l’accordo del 15 giugno, se rappresenta un passaggio storico nell’ambito delle relazioni industriali del settore metalmeccanico, appare, d’altro canto, di difficile attuazione, alla luce delle riserve manifestate dagli stessi lavoratori in sede referendaria.
In un tale clima, è auspicabile che le censure avanzate dalla Fiom nei confronti dell’accordo non finiscano per tradursi in una pericolosa palude in cui si impantani il confronto sindacale e, con esso, i posti di lavoro di cinquemila dipendenti.
Michel Martone, ordinario di diritto del lavoro