Che in una carrozza ferroviaria ci siano due persone che si chiamano Carlo Alberto è una coincidenza. Ma se tutti hanno questo nome tranne uno, ecco che costui non può non sentirsi a disagio, diverso dagli altri. Tanto da scegliere di viaggiare in piedi, nel corridoio, dicendo, con dignità e tristezza: “Signori, mi accorgo che la mia presenza in questo scompartimento è di troppo. Io mi chiamo Filippo”.
No, nulla ci induce ad uscire dall’ombra protettiva di Campanile. Anzi, più assistiamo a questa invadente, schizoide e sudaticcia campagna elettorale, maggiore è la voglia di essere ilari nella tristezza. Le storie surreali del buon Achille sono, per dirla con Carlo Bo, “un piccolo vento di follia”, “un’idea di levitazione” che porta a dimenticare “le leggi di gravità”.
Molte sono ambientate in treno, teatro mobile di surreali viaggi. Come quello dello scrittore Floro d’Avenza, seduto vicino ad un giovane che si spaccia per lui in modo talmente affascinante, suscitando l’entusiasmo dei presenti, che non ha il coraggio di smentirlo. Poi ci sono i poppanti, con il ciucciotto in bocca, che delle balie danno in affitto. Sono per quei passeggeri che vogliono restare soli: “Essi ne noleggiano uno e lo mettono sul sedile, bene in vista. Gli altri viaggiatori s’affacciano nello scompartimento, vedono il bambino e tirano di lungo. Poi questi bambini si lasciano in treno e la società pensa a ritirarli”.
Immaginiamo che su un convoglio del genere salgano i nostri politici, diretti verso le urne. Ecco Enrico Letta, sobrio e gentile: “Noi democratici e progressisti rappresentiamo l’unica forza affidabile, una garanzia contro l’avventurismo della destra. Ma non ho capito bene quanti siamo”. Sale Giuseppe Conte, elegante ma con l’aria confusa: “Non so se Beppe Grillo è d’accordo sul fatto che io abbia acquistato un biglietto di prima classe. Speriamo che non mi smentisca”.
Carlo Calenda, in finto casual, ha la faccia infastidita, come quei ragazzi benestanti che portano il pallone e pretendono di giocare anche se sono delle schiappe: “Devo essere io a dettare le regole! Non mi sottometto a nessuno. Se non si fa chiarezza, scendo alla prima stazione”. Matteo Renzi compulsa un misterioso librettino: “Secondo l’agenda Draghi siamo già in ritardo”.
Matteo Salvini indossa la felpa da ferroviere: “Se vedo un immigrato, che di certo non ha il biglietto, lo sbatto giù a calci, anche se siamo in corsa. Tolleranza zero”. Silvio Berlusconi, sempre sorridente, cerca un posto libero: “Permette? Ho una certa età e devo sedermi. Oddio, non sono vecchio, ma pieno di esperienza. Anche per questo, nel mio programma prevedo dentiere gratis per gli anziani, quelli veri. E poi bisogna piantare un milione di alberi. Dovrei diventare presidente del Senato. Grazie, al momento mi appoggio qui”.
Sale Giorgia Meloni. Chiarisce subito: “Sono una donna, sono una madre, sono cristiana”. Gli altri la guardano, ma nessuno ha la galanteria di alzarsi e di offrirle la poltrona. La conquisti da sola, se è così brava.
Ci sono tutti. Sergio Mattarella, in abiti da capostazione, porta il fischietto alla bocca. Esita a dare l’ordine della partenza, teme che i passeggeri vengano alle mani e che il convoglio deragli. “Povera Italia”, è scritto sulla locomotiva.
Per fortuna, dal Campanile battono ironici rintocchi: “Facchino!”. Un facchino si voltò risentito. “Dice a me? -fece- Facchino sarà lei”. “Ma non è lei che porta i bagagli?”. “Ah, per i bagagli? Credevo che mi insultasse”.
Tutti in carrozza!
Marco Cianca