Foto di: Emanuele Ghiani
Pubblichiamo qui di seguito l’articolo che Giuseppe Berta, che insegna storia economica alla Bocconi, ha scritto per l’Annuario del lavoro 2018 sulla politica di Confindustria. Il volume, che racconta e commenta quanto accaduto nel corso dell’anno nel mondo del lavoro, è in corso di preparazione e uscirà solo a metà dicembre. Ma abbiamo voluto fare questa anticipazione perché proprio in questi giorni, con l’assemblea di Assolombarda, è emersa la palese contraddizione tra il silenzio seguito dalla Confindustria su quanto stava facendo il governo e il coraggio espresso invece da Carlo Bonomi, il presidente di Assolombarda, che non ha esitato nel censurare pesantemente la politica del governo.
In questo modo portiamo all’attenzione di tutti i lettori de Il diario del lavoro la prossima uscita dell’Annuario del lavoro 2018, che è possibile acquistare a prezzo ridotto in questa fase.
Nel 2018 il declino di Confindustria, dopo essere andato avanti per anni con segnali evidenti ma all’interno di un contesto che riusciva a occultarli o quantomeno a ridurne la portata, si è rivelato nella sua gravità. Naturalmente, una considerazione analoga potrebbe essere avanzata anche per le altre rappresentanze d’interesse, che non hanno più potuto mascherare il processo di indebolimento subìto e la perdita di rilievo in un dibattito pubblico sempre più asfittico, dove non valgono più le consuetudini del passato. Nel caso di Confindustria, tuttavia, lo smarrimento di senso della sua presenza e della sua azione appare più grave perché l’associazione di viale dell’Astronomia aveva goduto fin qui di un’attenzione particolare da parte del sistema politico e, di riflesso, dei media in virtù del ruolo pubblico che esercitava. Ora tale ruolo è sostanzialmente venuto meno perché il governo e il sistema politico non glielo riconoscono più. E questa Confindustria, la Confindustria di Vincenzo Boccia, priva di tale ruolo non sa più come sopravvivere, dal momento che è anche incalzata dalla perdita delle proprie risorse. Ma andiamo per ordine, considerando in primo luogo i fattori interni che pongono a rischio la tenuta stessa di Confindustria in quanto organizzazione.
Anzitutto, va ricordato lo scadimento della vita interna dell’associazione, testimoniato da alcuni preoccupanti episodi, il più rilevante dei quali è certamente costituito dalla scoperta che un vicepresidente della scorsa gestione, il siciliano Antonello Montante, con delega ai problemi della legalità, il cui nome era già noto alle cronache per i legami intrattenuti con un reticolo di interessi mafiosi, aveva trovato il modo di inserire dei microchips nei telefoni della sede dell’associazione. Nessuno ha fatto mostra di stupirsene più di tanto, poiché la dimestichezza di Montante coi sistemi di hackeraggio era nota. Ma che un vicepresidente – e con quella responsabilità, poi! – si adoperasse per attivare dei veri e propri metodi di spionaggio ai danni dell’organizzazione in cui aveva un ruolo importante, dà la misura del degrado cui erano giunte le relazioni interne. Non si dimentichi, inoltre, che lo stesso Montante, al momento dell’elezione del presidente, aveva svolto compiti di raccordo non certo di second’ordine, visto che s’era impegnato per assicurare il voto di non pochi grandi elettori, tra i quali i rappresentanti delle imprese pubbliche.
Quest’episodio si inserisce in una catena di altri eventi che hanno contribuito ad accentuare l’opacità caratteristica di alcune altre operazioni confindustriali. Qui è d’obbligo tornare alla questione del giornale controllato dall’associazione, “Il Sole-24 Ore”, che sembra far da catalizzatore di tutte le anomalie diffuse nel sistema associativo. Si era già fatto un po’ di tutto per rimandare la crisi del giornale, a costo di coprire anche la trama di connivenze stabilitasi fra direzione, consiglio d’amministrazione e alcuni servizi editoriali, culminata nello stravolgimento dei dati relativi alle copie online del giornale, la cui consistenza era stata gonfiata oltre misura. A un certo punto, di fronte ai rischi dell’esito di un’indagine giudiziaria e dei rilievi cui esponeva la società controllante del giornale davanti alla Consob, nel 2017 si era finalmente proceduto al cambio del direttore, dell’amministratore delegato e al rinnovamento di parte degli organi di governance del quotidiano e delle sue strutture societarie. Nel medesimo tempo, si era proceduto a una ricapitalizzazione indifferibile, che non solo aveva messo a dura prova le riserve finanziarie di Confindustria, ma che aveva visto il concorso delle maggiori associazioni territoriali, sollecitate dal vertice romano. Da subito, era parso che lo sforzo finanziario, pur significativo, non sarebbe bastato ad arrestare la crisi del giornale, che è altrettanto se non ancora più profonda di quella che sta logorando tutta la stampa italiana.
La situazione del “Sole” era stata quindi tamponata, ma non certo risolta, tant’è che le vendite in edicola hanno continuato a flettere, mentre si parla di una perdita di bilancio fra i 2 e i 4 milioni mensili. Nel momento di crisi più acuta, c’era stata la sostituzione di Roberto Napoletano con Guido Gentili, giornalista e commentatore di lungo corso e di provata esperienza, che ha tentato di rilanciare il giornale ripristinando i contatti con i collaboratori che erano entrati in conflitto col direttore precedente o che s’erano allontanati per l’eco negativa delle sue vicende. Dal punto di vista amministrativo, si era sostituito l’amministratore delegato della società editoriale, operazione che non dev’essere riuscita, dal momento che anche il nuovo, Franco Moscetti, se n’è andato dopo poco più di un anno. Nel settembre 2018, toccava allo stesso Gentili cedere la posizione di direttore, con un cambio abbastanza imprevisto, a uno sperimentato professionista del giornalismo economico come Fabio Tamburini, chiamato dall’Ansa. La scelta non è parsa ben chiara nelle sue motivazioni: Tamburini, come Gentili, è un giornalista ultrasessantenne, in una fascia d’età che non sembra la più idonea per il varo di nuovi progetti editoriali. Dopo l’avvento del nuovo direttore il “Sole” si caratterizza per una linea molto più orientata alla notizia e all’informazione, anche di tipo professionale, che non al commento e all’opinione. Così, si è fatta più sporadica la presenza in prima pagina di opinionisti, studiosi e specialisti, mentre il tono del quotidiano risulta più asettico. Qualcuno ha voluto scorgere in questo cambio anche l’intenzione di adottare un atteggiamento più neutro verso il nuovo governo formato alla fine di maggio dal Movimento 5Stelle e dalle Lega di Matteo Salvini, apertamente contrastato invece dai giornali maggiori. Abbia o no qualche fondamento l’ipotesi, non sembra che finora il nuovo orientamento del “Sole” abbia favorito una migliore considerazione da parte dell’esecutivo verso Confindustria.
Infine, un ulteriore, piccolo episodio, che conferma anch’esso lo scadimento delle relazioni interne del sistema confindustriale, può essere ravvisato nella decisione della Luiss, l’università fondata e gestita dall’associazione imprenditoriale, di affidare un consistente incarico d’insegnamento a Roberto Napoletano, il quale è stato inserito in vari corsi di laurea con un numero di ore di didattica insolito per un docente a contratto, specie quando si tratti non di uno studioso ma di un professionista. Napoletano, poi, provvedeva a indicare nei programmi dei corsi il proprio ultimo libro come testo di riferimento. La notizia del suo incarico non poteva non avere risonanza, con ironie e proteste diffuse e la conseguente richiesta di revocare la sua nomina. Il presidente Boccia dichiarava subito la sua completa estraneità alla faccenda, dicendo che erano stati gli organi della Luiss ad affidargli quell’impegno. Alla fine, comunque, il carico didattico di Napoletano veniva alleggerito, ma senza che la sua docenza fosse cancellata.
Come si è accennato prima, il denominatore comune di questi episodi, molto diversi fra di loro e assolutamente non assimilabili, sta nel fatto che sono indicatori, da un lato, di un’opacità di comportamenti che reca danno all’associazione e, dall’altro, di una trama sottostante di relazioni di interesse che collegano fra di loro soggetti e ambienti in grado di condizionare la macchina organizzativa di Confindustria. Quando si è delineata questa rete informale di rapporti, opportunità e scambi che forma una sorta di nervatura all’interno del mondo confindustriale? L’impressione è che sia stata incentivata quando l’associazione imprenditoriale ha reso più stretto il proprio legame con la politica e il governo, traendo di lì forza e legittimazione pubblica, nella convinzione che, quando già la sua coesione organizzativa tradiva sintomi di cedimento, si potesse ovviarvi rafforzando il ruolo di Confindustria nell’arena collettiva.
La svolta in questa direzione si è verificata negli anni della presidenza di Emma Marcegaglia, che non a caso, dopo il suo mandato, continuerà a essere molto influente grazie alla sua influenza nella governance del quotidiano e dell’università di Confindustria. Fu Emma Marcegaglia a instaurare un contatto stretto con Silvio Berlusconi quando era al governo, al punto da indurre quest’ultimo a proclamare che il programma degli industriali era il suo stesso programma, davanti allo sguardo benevolo della presidente, che annuiva. Poco dopo si ebbe il distacco, all’inizio aspro e lacerante, della Fiat dall’associazione, dopo che il Lingotto aveva voluto sostituire il contratto nazionale di categoria dei metalmeccanici col suo contratto aziendale. Lo strappo con Confindustria fu allora duro, tanto che Marcegaglia non esitò a deplorare apertamente la mossa di Sergio Marchionne.
Dopo l’intervallo del Governo Monti, quando il gioco tornò nelle mani dei partiti, fu ancora Marcegaglia a orientare la marcia di avvicinamento tra Confindustria e Matteo Renzi. Una convergenza che assicurò all’imprenditrice mantovana la presidenza dell’Eni, da lei impiegata anche per costituire un fronte delle imprese pubbliche a favore dell’elezione di Boccia. Senza l’appoggio di Eni, Finmeccanica, Enel, Poste e Ferrovie, Boccia non ce l’avrebbe fatta a vincere la competizione con Alberto Vacchi. Quel blocco di voti fu determinante per la composizione di una maggioranza interna. Il nuovo presidente di Confindustria fu sollecito nel dichiarare la propria lealtà a Renzi, sposandone fino in fondo la posizione al momento del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Fino a quella data, le assemblee delle territoriali furono l’occasione per difendere le riforme volute dalle aziende; lo stesso Presidente del Consiglio partecipò a un buon numero di esse, mentre il Centro Studi di Confindustria avallò la tesi che una sconfitta del governo al referendum avrebbe indotto un rapido e pesante peggioramento dello scenario economico italiano.
Dimessosi Renzi, Confindustria troverà nel successivo esecutivo diretto da Paolo Gentiloni un interlocutore ancora più attento alle necessità e alle prospettive di rafforzamento del sistema delle imprese. Avrà soprattutto un partner affidabile in Carlo Calenda, Ministro dello sviluppo economico, a lungo assai vicino a Luca Cordero di Montezemolo e buon conoscitore degli ambienti imprenditoriali, mentre questi confiderà in Confindustria per dare seguito al suo programma ambizioso a sostegno della diffusione dell’innovazione, Industria 4.0. Tra mondo imprenditoriale e governo si formerà così una stretta intesa, quale non era esistita con gli esecutivi precedenti. Nell’assemblea confindustriale del 2017, Calenda interverrà con un discorso che alcuni scambieranno addirittura per la candidatura a leader di uno schieramento capace di assemblare il fronte imprenditoriale e il sindacato di indirizzo più riformista come la Fim-Cisl di Marco Bentivogli, pronto a far suo il programma del Ministro legittimandolo con l’avallo di una categoria simbolicamente importante come quella dei metalmeccanici.
Tanto era stata promettente l’assemblea annuale di Confindustria per il 2017 (anche se, ripetiamolo, soprattutto per l’insolita ampiezza dell’intervento del ministro Calenda, ben diverso nei toni dalla ritualità di un saluto governativo) quanto, al confronto, è apparsa scialba e incolore quella tenutasi l’anno dopo. Essa peraltro sarebbe caduta in un momento infelice, quando non era ancora sopito l’effetto sorpresa delle elezioni politiche del marzo 2018 e quando non era ancora chiaro l’approdo al governo gialloverde, incerto fino all’ultimo istante. Fatto sta che così l’assemblea confindustriale finiva coll’essere relegata in un limbo, almeno dal punto di vista politico: l’assenza dei rappresentanti dei due partiti usciti vincitori dalla tornata elettorale, 5Stelle e Lega, in quel frangente presi dal problema della composizione del nuovo esecutivo, ma anche ostentatamente indifferenti verso una Confindustria spesso sommariamente additata come l’espressione di quei “poteri forti” in crisi profonda, che il governo in formazione avrebbe dovuto smantellare. La Confindustria di Boccia aveva quindi l’impressione di dover agire in una terra di nessuno, dove non valevano più i vecchi collegamenti politici e dove i legami erano con gli sconfitti e non con i vincitori delle elezioni.
In realtà, Confindustria avrebbe avuto a propria disposizione vari modi per fronteggiare una situazione imprevista, che minacciava di diventare per essa un cul de sac da cui diventava arduo uscire. Avrebbe naturalmente potuto tentare di agganciare i nuovi protagonisti della politica italiana, perseguendo con disinvoltura la propria naturale attitudine filogovernativa (e in effetti, come vedremo, cercherà poi, invero maldestramente, un contatto con la Lega, visto che i pentastellati esibiscono un volto ostile verso le rappresentanze degli interessi). O avrebbe potuto ripristinare il suo profilo originale, mettendo gli interessi dell’Italia industriale davanti a quelli dei partiti, magari per provare a spiegare ai neofiti del governo quali erano i problemi dell’economia reale di un paese che stentava a ritrovare la via della crescita. Ma, almeno per qualche mese, Confindustria non doveva imboccare né l’una né l’altra direzione. Forse perché era ancora troppo fresco il ricordo della collaborazione fruttuosa ed efficace col partito democratico di Matteo Renzi o forse perché non possedeva il linguaggio giusto per interagire con coloro che avevano sconfitto e respinto all’opposizione non soltanto Renzi, ma anche ciò che restava della Forza Italia di Silvio Berlusconi (un altro soggetto messo nell’angolo dai risultati elettorali). Invece, a battere la strada alternativa della ricostruzione del vero profilo dell’Italia industriale, Confindustria non ci tentò nemmeno; d’altronde, questa semmai era stata la proposta di Alberto Vacchi nel confronto del 2016, una proposta che contro cui Boccia aveva allineato il fronte dei suoi sostenitori.
Di qui i mesi di incertezza che seguiranno, con una Confindustria che palesemente non ce la farà a recuperare la posizione che aveva occupato per anni come interlocutore privilegiato del governo e del sistema politico. A Palazzo Chigi erano arrivati gli hyksos e a viale dell’Astronomia nessuno capiva bene che cosa si dovesse fare per ottenere la loro attenzione, visto che non parlavano col linguaggio né della Prima né della Seconda Repubblica.
Da parte loro, i nuovi inquilini del potere (inquilini peraltro fermamente intenzionati a consolidare la loro posizione governativa) s’erano probabilmente convinti che dal dialogo con un ex potere forte, ormai in crisi palese, come Confindustria ci fosse poco da ricavare. Luigi Di Maio, durante la campagna elettorale, aveva gettato qualche amo verso il sistema confindustriale, chiedendo di incontrare, sebbene in forma riservata, i presidenti di alcune territoriali, specie del Nord, dove i 5Stelle avevano una carenza di radicamento e di credibilità presso il mondo dell’economia. A quanto si racconta Di Maio non aveva ottenuto un granché: i suoi progetti, a partire dal reddito di cittadinanza, non erano certamente fatti per riscuotere un’immediata simpatia fra i ceti economici e professionali. È vero che il candidato pentastellato s’era premurato di far sapere che il suo movimento considerava superflui i sindacati, se non addirittura nocivi, e lasciava comprendere che non avrebbero riscosso l’attenzione di un loro esecutivo. Un intento così ingenuamente formulato non era sufficiente però per accreditarsi presso l’universo imprenditoriale (per giunta un po’ in sospetto verso chi professava la propria non benevolenza verso i sindacati, senza accorgersi che così mostrava di non tenere in grande credito nemmeno le associazioni datoriali). Per il resto, i programmi del 5Stelle erano quanto di più lontano si potesse immaginare rispetto agli interessi economici consolidati: no agli investimenti nelle grandi infrastrutture, no a effettive politiche di sostegno alle imprese come Industria 4.0, no alle politiche per stabilizzare il sistema pensionistico. Insomma, nella piattaforma pentastellata c’era ben poco che potessero apprezzare gli attori imprenditoriali.
A farla breve, insomma, c’erano tutte le condizioni per imporre a Boccia e alla sua associazione uno stato di afasia. Ovvio allora che il presidente di Confindustria cercasse di evaderne, impiegando lo schema collaudato che gli era congeniale: incominciò a intervenire sui primi, rari provvedimenti varati dal governo, esaminandoli dal punto di vista degli effetti economici sulle imprese. Era l’approccio che s’era sempre praticato, ma nel caso specifico avrebbe subito mostrato la corda. Un po’ perché gli atti concreti del governo gialloverde erano a dir poco scarsi e un po’ perché quel metodo di discuterli in pubblico non funzionava. Emblematica la vicenda del Decreto Dignità (che, dietro il nome pomposo, celava alcuni aggiustamenti di non grande spessore del Jobs Act di Renzi). A Confindustria non piacevano le norme che ponevano un limite al rinnovo dei contratti a termine, dopodiché (nell’ottica dei 5Stelle che ne erano i proponenti) le aziende avrebbero dovuto procedere all’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori. Più che altro, col suo altisonante nome, il decreto Dignità mirava a persuadere l’opinione pubblica e la base elettorale del governo che era in questione la flessibilità eccessiva introdotta nel mercato del lavoro. Essa era dunque da sottoporre a restrizione. È chiaro che proprio questo cozzava contro la filosofia della flessibilità nelle relazioni di lavoro sempre perorata da Confindustria, che si sentiva così sfidata sul suo terreno. Le obiezioni espresse da Boccia non sortiranno pertanto altra conseguenza se non quella di rafforzare il convincimento del governo di essersi collocato nella posizione giusta. Proprio la critica portata dai “poteri forti” e dai loro giornali contro l’esecutivo diventava la prova manifesta che l’esecutivo gialloverde s’era avviato lungo un cammino su cui avrebbe dovuto proseguire senza esitazioni. Con simili presupposti, non poteva svilupparsi dialogo alcuno. Sicché Confindustria si scopriva desolatamente isolata, priva della possibilità di esercitare quell’arte dell’interazione coi governi in cui era molto versata.
Ad accentuare quel senso d’isolamento, che rendeva difficile la vita del suo gruppo dirigente romano, interveniva poi un altro fattore da non trascurare: la sollecitazione da parte delle territoriali affinché il centro confederale le sostenesse nella loro azione di contrasto di alcuni degli orientamenti del governo gialloverde. Su questo versante, spiccava in particolare la questione degli investimenti infrastrutturali. Era nota a tutti l’avversione coltivata per anni e anni dal MoVimento 5Stelle nei confronti delle grandi opere, Tav e Terzo Valico in primis. I pentastellati si erano spesi senza risparmio proprio per l’opposizione alla Tav Torino-Lione in Valle di Susa, anche quando questa era andata allo scontro aperto con le forze dell’ordine a presidio dei cantieri. In cambio di questo sostegno, i 5Stelle avevano canalizzato un consenso diffuso verso i 5Stelle nell’area no-Tav e anche in quella antagonistica dei centri sociali di Torino (i cui portavoce siedono persino nel consiglio comunale del capoluogo piemontese e rientrano nella maggioranza della sindaca Chiara Appendino).
Appena costituito il governo, i no-Tav piemontesi sembravano ricevere un ulteriore avallo dalle parole del Ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, che comunicava subito la sua intenzione di sospendere i lavori della Torino-Lione in attesa dei risultati del lavoro di una commissione ministeriale, che, sulla base dell’analisi di costi e benefici, si sarebbe dovuta pronunciare sull’opportunità o meno di procedere al completamento della linea ferroviaria ad alta velocità. Ciò metteva immediatamente in allarme le associazioni locali degli imprenditori (con l’Unione Industriale di Torino in prima fila), da sempre fautrici dell’opera, ritenuta indispensabile per una moderna piattaforma logistica che non tagliasse fuori il Nord Ovest dagli assi principali di comunicazione. Di fronte all’atteggiamento del Ministro, palesemente riluttante a dar seguito ai lavori della Tav, e alla richiesta del presidente della Regione Piemonte di garantire subito il finanziamento ulteriore dei cantieri dell’opera, le territoriali del Nord indicevano per settembre un convegno a Torino a supporto della Tav, cui assicurava la sua partecipazione il presidente Boccia.
Era un’altra sfida al governo e alla sua anima grillina. Ma forse, sotto sotto, c’era anche la volontà di dividere l’esecutivo, la cui altra anima, quella leghista, s’era sempre schierata a favore delle grandi opere, soprattutto nel Nord. D’altronde, il presidente del Veneto, Luca Zaia, continuava a dar voce allo spirito localista della Lega, mentre invocava a sua volta il completamento di infrastrutture cospicue come la Pedemontana, anche in questo caso con l’argomento che era essenziale per l’economia del Nord-Est.
Probabilmente entro questa cornice, prendeva forma l’idea che Confindustria, per spezzare la cortina di isolamento che l’avvolgeva, potesse stringere un accordo con un partito come la Lega, che raccoglieva un consenso articolato e diffuso nel mondo delle aziende settentrionali. In fondo, si pensava che Matteo Salvini – peraltro spinto da valutazioni e calcoli esclusivamente politici – avrebbe potuto essere condizionato da sollecitazioni nordiste che affioravano nelle parole di Zaia come in quelle di alcuni rappresentanti territoriali dell’associazionismo imprenditoriale, quali per esempio Marco Bonometti, industriale bresciano di rilievo, il quale più volte si dirà stupito e irritato dalla piega presa dal governo col Decreto Dignità e, in seguito, col Documento di economia e finanza (Def), causa dell’esasperazione dei rapporti con l’Unione Europea.
È più che probabile che Boccia e i suoi collaboratori, riflettendo sulla specificità della collocazione della Lega (partito ancora espressione del Nord e dei suoi ceti produttivi, costretto a un’alleanza, che a molti pareva innaturale e incongrua, coi pentastellati, i quali hanno nel Mezzogiorno la base elettorale più grande), abbiano pensato che si potesse compiere un’apertura di credito nei confronti di Matteo Salvini, ricevendone per contraccambio una maggiore attenzione. Così come non è da escludere che a spingere Confindustria in questo senso fosse stato anche il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti, un uomo con una grande dimestichezza con la business community del Nord, anche lui interessato a riprendere i contatti col sistema confindustriale.
Peccato che Boccia desse rapidamente seguito a quest’apertura di dialogo con la Lega nella maniera più incauta. Parlando a un’assemblea di imprenditori veneti alla fine di settembre, dirà che Confindustria riponeva tutta la sua fiducia nella Lega e confidava nella sua azione politica. Scandita così, questa dichiarazione verrà presa né più né meno che come un inusuale endorsement nei riguardi di un partito il quale, fin lì, non aveva proprio fatto nulla di concreto per meritarsi il plauso di Confindustria. Ne nasceranno reazioni a catena, che si ripercuoteranno negativamente su Boccia.
La prima e la più indispettita sarà quella di Carlo Calenda, in procinto di avviare un giro di presentazioni per l’Italia del suo libro-manifesto Orizzonti selvaggi (Milano, Feltrinelli, 2018), in cui l’ex ministro voleva coinvolgere uomini del sistema associativo confindustriale, probabilmente per guadagnarsi qualche attestato di stima in vista della prossima campagna per le elezioni europee del maggio 2019. In uno dei suoi tweet veementi, Calenda se la prenderà senza mezzi termini contro il gesto così insolito di chi aveva stabilito di gettare Confindustria nell’arena politica promuovendo così una stagione di inedito collateralismo politico.
In realtà, Calenda forzava un po’ la situazione: era vero, Boccia aveva operato un affondo maldestro alla ricerca di un facile effetto di consenso perché parlava in Veneto, una regione in cui si poteva anche criticare il comportamento della Lega di governo a Roma, ma senza coltivare l’idea di staccarsene localmente (proprio in quei giorni un sondaggio indicava nel 48% il consenso potenziale dell’elettorato che la Lega manteneva nel Nord Est). Dunque, Boccia aveva più che altro puntato a una facile e immediata captatio benevolentiae, che però non avrebbe smosso Salvini dalle proprie posizioni, mentre avrebbe invece suscitato il risentimento di un centrosinistra indispettito per quello che giudicava un voltafaccia strumentale e spregiudicato. In fondo, Confindustria nella passata legislatura aveva portato a casa i benefici degli incentivi di Industria 4.0, per merito di Calenda, e quelli del Jobs Act grazie a Renzi. Ora pareva aver dimenticato quel passato recente.
A sua volta piccato sul vivo, Boccia reagiva assai male alla critica che gli aveva mosso Calenda e, con un altro tweet, gli replicava rivolgendogli pesanti apprezzamenti che coinvolgevano la sfera personale. L’ex ministro badasse a sé stesso, gli diceva in sostanza il presidente di Confindustria, perché non era stato nemmeno capace di condurre in porto l’ipotesi di un incontro coi maggiorenti del Pd per fissare una pur minimale linea di accordo. Un rilievo simile non poteva che far precipitare lo scontro, trasformandolo in una pessima diatriba personale e contribuendo allo scadimento della qualità del confronto politico, che cessava di investire il terreno delle idee per diventare sterile polemica. Così, Boccia era riuscito ad alienarsi gli ambienti del Pd, senza per questo fare un passo di più nella considerazione dei leghisti o del governo gialloverde.
Di lì a breve, Confindustria avrebbe peraltro cercato di ristabilire le opportune distanze coll’esecutivo, intanto alle prese col tormentone del Def, le devastanti polemiche con Bruxelles, il giudizio dei mercati finanziari, temuto e nello stesso tempo disprezzato. L’occasione sarà quella del consueto seminario di previsione indetto dal suo Centro Studi per l’analisi delle tendenze del 2019, alla presenza del Ministro dell’economia Giovanni Tria, nell’occhio del ciclone per le sue incertezze tra gli inviti perentori dell’Unione Europea a rispettare i vincoli di stabilità e le robuste sollecitazioni di Salvini e di Maio a operare senza curarsene. In quella sede, si dirà che il Pil dell’Italia per il nuovo anno non poteva crescere di molto e si indicherà un valore, lo 0,9%, assai divergente dalla stima del governo (+1,5%) e più prossimo invece alle stime del Fondo Monetario Internazionale e dell’Unione Europea. Insomma, in quel frangente Confindustria aveva cura di allinearsi alle posizioni di autorità come la Banca d’Italia e gli altri organismi che si stavano dando da fare per gettare molta acqua del fuoco degli entusiasmi (veri o di facciata) del Governo Conte-Salvini-Di Maio.
Boccia l’avrà fatto per correggere il tiro rispetto alla dichiarazione temeraria pro Lega di pochi giorni prima? O semplicemente avrà voluto far emergere la continuità delle posizioni di una Confindustria che valuta i governi dai fatti? Certo, non poteva bastare a sottrarre alle accuse di una certa erraticità di giudizio un’associazione imprenditoriale sottoposta a tanti elementi di stress, all’interno come all’esterno, e a spinte centrifughe. Boccia sapeva di aver contro una parte rilevante delle associazioni del Nord, che non avevano mai condiviso la sua politica e che già guardavano avanti alla sua successione. Così come era consapevole del fatto che i guai del “Sole-24 Ore” non erano affatto finiti e non ci voleva molto a pronosticare il ripetersi di situazioni critiche. Col governo non vi erano stati miglioramenti significativi e restava sospesa una delle minacce che Boccia temeva di più, la disdetta delle imprese pubbliche dell’adesione Confindustria. Se ciò si verificasse, si tratterebbe di una replica, in una ben diversa cornice storica, di quanto accadde a metà degli anni Cinquanta, quando Amintore Fanfani, anche per dotare di una base economica autonoma la Democrazia cristiana post-degasperiana, fece votare dal Parlamento lo “sganciamento” dell’Iri da Confindustria, con una svolta che fece scalpore nell’opinione pubblica (“L’andazzo è agli sganciamenti”, commentò con un’esplicita vena critica Luigi Einaudi).
Il governo gialloverde è ancora tentato dall’ipotesi di utilizzare la fetta di economia pubblica che ricade sotto il suo controllo per conferire delle risorse autonome alla propria politica economica (ammesso che si possano definire così le pulsioni un po’ dirigiste e un po’ autarchiche che attraversano l’esecutivo). Nello stesso tempo, non gli dispiacerebbe compiere un gesto di sfregio altamente simbolico nei confronti degli ex poteri forti (che lo sono sempre meno…) e “salotti buoni” della borghesia imprenditoriale. Salvini e Di Maio (ma già prima lo stesso Renzi) sono campioni di quell’opera di “disintermediazione” che è già progredita a lungo in questi ultimi anni e ostentano di non credere più all’utilità dei corpi intermedi e, più in generale, degli strumenti, delle sedi e dei meccanismi di mediazione. Salvini perché crede di poter parlare in modo diretto ai ceti produttivi (e fin qui i sondaggi paiono dargli ragione) e sa che nelle regioni del Nord non esiste alternativa all’offerta politica della Lega, a causa del drastico ridimensionamento subìto da Pd e Forza Italia. Di Maio perché persuaso da sempre dagli argomenti della Casaleggio e Associati secondo cui il futuro sta nella “democrazia del web”, la quale non sa proprio che farsene dei corpi intermedi. A riprova si rammenti che né Confindustria né sindacati sono mai stati consultati su temi-chiave del Def come le pensioni, un fatto in un certo senso clamoroso rispetto alla prassi in voga solo qualche anno fa. Come escludere, allora, che domani il governo in carica o un altro che gli assomigli e che ne erediti le attitudini e gli umori non possa troncare di colpo il legame associativo ancora esistente fra i gruppi pubblici e Confindustria?
Per questa Confindustria, per la Confindustria che ha eletto Vincenzo Boccia con le modalità che sono state ricordate, si tratterebbe di un trauma forse irrecuperabile. Non solo per il drenaggio di risorse che provocherebbe (potrebbe sussistere ancora la pesante struttura di viale dell’Astronomia senza i contributi delle imprese pubbliche?), ma per il venir meno di un modello consolidato. Un modello fondato sulla contiguità con la politica e con i governi, con la continua ricerca di una posizione stabile per Confindustria all’interno dell’arena politica italiana, per le infinite possibilità di intese, esplicite e sotterranee, che hanno concorso a definire delle brillanti carriere per i rappresentanti del sistema associativo.
Al contempo, tale trauma potrebbe dare a Confindustria una possibilità di rilancio, garantendole, come dire? una seconda vita, tale da riportare l’associazione imprenditoriale alle sue radici e farla tornare a essere l’espressione diretta delle forze e delle componenti più vitali del mondo industriale italiano. Ne verrebbe fuori una Confindustria espressione del “capitalismo imprenditoriale” (per usare l’espressione dell’economista americano William J. Baumol), che è oggi appannaggio delle imprese medie e intermedie, il vero punto di forza di un modello produttivo che deve essere ancora riconosciuto e valorizzato appieno. Una svolta così radicale, anche se imposta da circostanze esterne, darebbe una chance a Confindustria per ricostruire la propria efficacia rappresentativa e per recuperare una voce autorevole. Essa parlerebbe certamente a nome di una realtà assai più circoscritta nei suoi confini, meno vasta ma altresì meno eterogenea e più compatta. E le conferirebbe il grado di autonomia indispensabile per recitare quel ruolo autonomo di un autorevole soggetto economico e di politica economica nel senso pieno del termine di cui oggi, entro una crisi dell’Italia in via di inasprimento, si avverte l’assenza.
Giuseppe Berta