di Tiziano Treu
Il collegato lavoro, votato nei giorni scorsi al Senato, contiene una congerie eterogenea di norme. Non a caso è un provvedimento che si trascina da oltre un anno e mezzo fra Senato e Camera. C’era dunque il tempo per riflettere meglio su alcune norme e correggere vari errori. Invece non lo si è fatto.La disposizione più grave riguarda l’arbitrato cosiddetto “di equità” (art.31, comma 5 e comma 8).
La portata della normativa non è stata forse compresa in tutte le sue implicazioni, nonostante fossero stati ampiamente evidenziate nel dibattito al Senato.
Anzitutto va sgombrato un equivoco che viene usato nella polemica corrente. Nessuno, non certo io, contesta l’arbitrato in sé. L’arbitrato può essere utile a risolvere rapidamente anche le controversie di lavoro, come dimostra la pratica di paesi che hanno largamente adottato questo strumento. Ma in nessuno di questi paesi si ammette un arbitrato di “equità”, cioè svincolato dal rispetto delle norme inderogabili di legge.
Altro è semplificare le procedure promuovendo la conciliazione e l’arbitrato, altro è ammettere che l’arbitrato possa decidere secondo la sua idea di equità, al di fuori dei vincoli di legge e senza possibilità di appello al giudice; perché questo è il significato della formula usata.
Attribuire all’arbitrato il poter di decidere a prescindere o contro le norme inderogabili di tutela del lavoro, senza possibilità di appello, vuol dire contraddire la natura protettiva del diritto del lavoro e vanificare le tutele del lavoratore. Sarebbe come ammettere che si possa rinunciare alle ferie, agli orari massimi, alle norme di sicurezza, e alla tutela dei licenziamenti ingiusti, di cui all’art.18.
Non basta dire che l’arbitrato è volontario. Se fosse obbligatorio si violerebbe anche l’art.24 della Costituzione, che garantisce il diritto di tutti di ricorso al giudice. Ma il fatto che il lavoratore accetti l’arbitrato non può vanificare le tutele stabilite dalla legge, che sono inderogabili perché servono a proteggere diritti ritenuti indisponibili dallo stesso interessato. Non basta neppure il richiamo al rispetto dei “principi generali” dell’ordinamento contenuto nel testo dell’art. 31, comma 5. E’ un concetto generico, troppo ampio, che non comprende tutte le tutele fondamentali del lavoratore, compreso l’articolo 18.
Un argomento usato per ridurre la portata della norma è che l’arbitrato sarà regolato dai contratti collettivi e quindi il lavoratore sarà protetto. Questo è vero, ma nella legge non c’è solo la via collettiva all’arbitrato, che è certo più garantista; c’è anche la possibilità del ricorso individuale da parte del singolo lavoratore (come stabilito al co. 8 dell’art. 31).
Il lavoratore quando è in posizione di debolezza (pensiamo al momento dell’assunzione o del rinnovo di un contratto a termine) può essere “costretto” ad accettare una clausola arbitrale che pregiudichi i suoi diritti futuri, compreso quello a non essere licenziato ingiustamente (articolo 18).
Neppure la certificazione è una garanzia. Il certificatore, di fronte a un accordo sull’arbitrato validamente siglato fra le parti, non può che prenderne atto.
C’è anche il rischio che qualche datore di lavoro senza scrupoli, approfittando della debolezza di lavoratori a cui il sindacato non arriva, lavoratori precari, inesperti o in stato di grave bisogno(pensiamo anche agli extracomunitari), faccia firmare una adesione in bianco all’arbitrato di equità da esibire al momento del sorgere di una controversia. La prassi di “firme in bianco” non è purtroppo sconosciuta: pensiamo alle dimissioni in bianco delle lavoratrici.
Per questo motivo la norma è inaccettabile, perché è un modo indiretto di svuotare le norme di tutela del diritto del lavoro. Se alcune si vogliono modificare perché ritenute troppo rigide, bisogna farlo apertamente, discutendo in parlamento: non cercare di aggirarle tramite un arbitrato senza regole e senza possibilità di ricorso al giudice.
Credo che la norma sia non solo inaccettabile nel merito ma probabilmente anche anticostituzionale. Il ricorso all’arbitrato libero nel pubblico impiego (art. 31, comma 8) solleva dubbi di compatibilità con il principio di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione (art.97), un arbitro così libero da vincoli potrebbe prendere decisioni nocive, anche gravemente, per il buon andamento delle Pubbliche Amministrazioni, di cui una corretta gestione dei rapporti di lavoro è magna pars. Nel settore privato un arbitrato senza regole affidato al singolo può essere contrario ai principi costituzionali di tutela del lavoro (art.1,4,35 della Costituzione).
La strada per una soluzione equilibrata della questione era quella, indicata già un anno fa in Commissione lavoro dai membri del PD, fra cui chi scrive, di dare mandato all’arbitro di decidere con pieni poteri – quindi anche in equità – ma solo nelle controversie riguardanti materie regolate dai contratti collettivi di lavoro. Queste sono materie pienamente disponibili dalle parti sociali a differenza di quelle regolate da norme imperative di legge; perché chi ha creato certi diritti e certe tutele può disporne o direttamente o tramite arbitrato. E gran parte delle controversie di lavoro riguarda proprio la applicazione dei contratti collettivi. Quindi basta un intervento dell’arbitro sulle controversie di origine contrattuale per sfoltire il contenzioso giudiziario senza violare il sistema.
Questa è la soluzione ampiamente sperimentata negli ordinamenti di common law – USA e Gran Bretagna – dove da decenni le parti dei contratti collettivi affidano a un arbitro (o a più arbitri) la composizione di tutte le controversie nascenti nel corso dell’applicazione del contratto. Ciò avviene con piena soddisfazione, perché l’arbitro acquista una conoscenza specifica della materia del contendere e può decidere con maggiore cognizione di causa di un giudice e inoltre con più rapidità.
Personalmente avevo proposto (v. il mio articolo su Diritto delle relazioni Industriali, 2003, n.1) che la legge potesse riconoscere alle parti la possibilità di ricorrere all’arbitrato di equità anche in certe materie di legge. Si tratterebbe di una previsione parallela a quelle diffusesi già da tempo nel diritto del lavoro che hanno delegato alle parti collettive il potere di flessibilizzare certi aspetti della regolazione del mercato del lavoro (ad es. in materia di contratto a termine, di tutela dei lavoratori in caso di crisi aziendale, etc.). Anche qui l’ipotesi è plausibile in quanto non configuri una delegificazione generale, ma riguardi materie specifiche lasciando alle parti di approfittare o meno di queste possibilità. In ogni caso l’ammissione di un (limitato) ricorso all’arbitrato di equità dovrebbe fare salva la intangibilità delle norme fondamentali del sistema.
Purtroppo il nostro legislatore non ha voluto seguire questi suggerimenti ragionevoli e ha approvato una norma “in bianco” che è fuori del nostro sistema.
Detto questo, si tratta ora di vedere come è possibile “ridurre i danni” in attesa del possibile intervento della Corte Costituzionale. . La via maestra, come rileva anche G. Santini, è di regolare la materia per via contrattuale, possibilmente in sede di intesa confederale (co. 9, art. 31). L’intesa raggiunta lo scorso 11 marzo è un primo passo in questa direzione, ma occorre procedere oltre.
Anzitutto andrebbe stabilito che clausole compromissorie possono essere ammesse solo secondo le regole contrattuali collettive. Inoltre andrebbe precisato che la scelta di ricorrere all’arbitro va fatta al sorgere della controversia e non al momento dell’assunzione (quando il lavoratore è più debole).
Infine, l’uso dell’arbitrato di equità, cioè libero, va limitato alle materie attinenti al contratto collettivo, e quindi disponibili dalle parti.
Queste sono correzioni non da poco. C’è da augurarsi che le parti sociali trovino un accordo che introduca tali correzioni, così da ricondurre l’arbitrato in ambiti ragionevoli, permettendogli di favorire soluzioni delle controversie più veloci ma rispettose dei diritti dei lavoratori.