Il tema di una legge sulla rappresentanza resta sempre all’ordine del giorno per dare regolarità alle relazioni industriali. Ma ultimamente questo argomento non sembra appassionare i sindacati più di tanto. Si comincia infatti a pensare, soprattutto in casa Cisl e Uil, che si possa fare a meno di una legge che imponga le disposizioni sulle quali le parti sociali si sono messe d’accordo con il testo unico del 2014 e invece dare validità erga omnes alle disposizioni salariali dei contratti collettivi. E’ quanto hanno stabilito tanti giudici con loro sentenze, quanto fa l’Inps quando deve indicare i minimi salariali sui quali calcolare i contributi dovuti, quanto afferma anche la legge sul Cnel. Si tratta di criteri abbastanza elastici per andare bene a tutti. E infatti non risulta che ci siano contestazioni. E’ quanto afferma Tiziano Treu, presidente del Cnel, in questa intervista. Che però ricorda come un’estensione erga omnes della validità dei minimi salariali indicati dai contratti rischia di andare contro le regole dell’articolo 39 della Costituzione. Questo problema potrebbe però essere superato dalla legge che estende a tutti i soci lavoratori delle cooperative i minimi salariali indicati dai contratti. In questo caso non sorgerebbero problemi costituzionali perché non verrebbe estesa la validità di tutto il contratto, ma solo di una sua parte, quella dei minimi e quindi varrebbe la regola della giusta remunerazione stabilita dall’articolo 36 della Costituzione.
Presidente Treu, il governo Draghi si trova subito a dover affrontare un problema serio, quello della rappresentanza sindacale.
Sì, questo è certamente un problema, ma il discorso non può terminare qui, perché al tema della rappresentanza degli attori sindacali si aggiunge subito quello della validità erga omnes dei contratti collettivi e, di conseguenza, quello del salario minimo, soprattutto per le persone marginali nella società. Questi i problemi che sono stati posti, con questa sequenza, in tutti i paesi europei.
Il primo tema è però quello della rappresentanza.
Sì e su questa strada tutte le parti sociali hanno ritenuto che il percorso migliore da seguire fosse non quello della legge ma quello degli accordi; e in effetti se ne sono fatti tanti. Il più importante è l’accordo interconfederale che ha portato al testo unico del 2014, sottoscritto da quasi tutti gli attori sindacali delle relazioni industriali.
Ma non è stato sufficiente?
Il punto è che qualcuno ci ha ripensato, soprattutto i sindacati più piccoli, che poi tanto piccoli non sono. Hanno firmato, è vero, ma non è stato sufficiente, perché hanno avuto dei ripensamenti. E tanto più ci hanno ripensato quando, come è successo con il governo Conte I, questi soggetti hanno trovato una sponda politica. Mi riferisco all’Ugl, ma non solo a questa confederazione.
Questo per i sindacati dei lavoratori. E per le associazioni datoriali?
Sui datori di lavoro non si è detto né fatto nulla per anni. Solo di recente ci si è accorti che era opportuno stabilire dei criteri per misurare la rappresentanza, anche delle loro associazioni.
Perché ci si è accorti di questa esigenza?
Perché le associazioni di datori di lavoro si sono moltiplicate e ci sono settori nei quali le imprese non aderiscono a Confindustria né a Confcommercio, e hanno costituito loro associazioni, più o meno rappresentative. I contratti cosiddetti pirata sono spesso firmati da queste associazioni fantasma, che sono decine e decine. Per questo alla fine anche i datori di lavoro hanno accettato di contarsi; anche se non c’è ancora alcun accordo sui criteri di pesatura da utilizzare.
Che cosa dovrebbero fare le parti sociali per superare questi problemi?
O si mettono d’accordo fra loro e raggiungono un altro grande accordo o serve una legge. Sulla quale però esistono molti dubbi.
Che tipo di dubbi?
Molti non sono certi dell’indispensabilità di una legge sulla rappresentanza. Mi sembra che la Cisl abbia dei dubbi, un po’ anche la Uil, meno forse la Cgil.
Hanno espresso perplessità?
Hanno cominciato a pensare che forse è meglio non continuare a cercare delle regole per la rappresentanza, e invece dare forza ai contratti collettivi, dare loro efficacia erga omnes. Questo è possibile farlo, ma a due condizioni. La prima è che è necessario decidere come si fa a individuare i contratti che debbano avere efficacia erga omnes.
Anche in questo caso servono dei criteri precisi?
Sì, ma esistono già delle indicazioni, quelle fornite dai giudici in tante sentenze e dall’Inps, che deve sapere su quali minimi salariali devono essere conteggiati i contributi previdenziali dovuti. Anche la legge sul Cnel ha dato delle indicazioni. Si tratta di criteri abbastanza elastici, per cui vi rientrano anche soggetti come l’Ugl, la Cisal, la Confsal, che non rientrerebbero nei criteri precisi che ha individuato il testo unico del 2014. Criteri vaghi, ma che non mi risulta siano molto contestati. In questo modo il sistema può funzionare sia pure non senza incertezza.
E la seconda condizione?
Nasce dal fatto che i contratti collettivi non possono essere estesi erga omnes senza rispettare le disposizioni dell’articolo 39 della Costituzione da anni inattuato. Ma esiste una legge che vale per i lavoratori soci delle cooperative, secondo la quale i salari stabiliti dai contratti collettivi debbono essere applicati a tutti i soci lavoratori. La Corte ha ritenuto che questa indicazione, non vada contro l’art. 39 Cost., perché non si rendono obbligatori i contratti nella loro interezza, ma solo le disposizioni salariali. In questo modo non si rientra nell’ambito dell’articolo 39, ma del 36 che prevede una giusta remunerazione per tutti. E’ per questo che i sindacati da qualche anno hanno cominciato a dire che invece del salario minimo per legge è possibile dare efficacia erga omnes alle parti salariali dei contratti. E’ quello che le confederazioni sindacali hanno detto nei giorni scorsi al ministro Orlando.
Questo sistema può funzionare?
Io personalmente ho sempre ritenuto che la validità erga omnes della parte salariale dei contratti è meglio del salario minimo per legge; ma bisogna partire dal fatto che queste sono due logiche tra loro molto diverse. Il salario minimo rappresenta davvero il minimo dei minimi, e infatti di solito è molto basso. Anche la Commissione Eu rileva che il salario minimo europeo si posizionerebbe più o meno tra il 50 e il 60% del salario mediano. Poi resterebbero grandi differenze, perché le distanze fra paesi sono immense, basta pensare al salario medio in Romania di 3-400 euro e quello del Lussemburgo di oltre 2.000 euro. Non è un caso che la Commissione chiarisca che il salario minimo non sarebbe comunque uno strumento sufficiente di lotta alla povertà dei lavoratori.
Diverso il caso dell’estensione erga omnes dei minimi salariali?
Sì, perché varrebbero all’interno di una categoria in un settore. Il minimo del terzo livello dei metalmeccanici si applicherebbe a tutti i terzi livelli dei metalmeccanici. Non sarebbe un salario minimo uguale per tutte le categorie e i settori.
Ma si tratta di due cose molto diverse tra loro.
Sì, e infatti si deve considerare che l’impatto economico nei due casi sarebbe molto diverso. Al momento l’evasione contrattuale è molto alta, perché anche imprese aderenti a Confindustria non applicano i contratti e nessuno può dirgli nulla. Cioè, il singolo lavoratore può farlo, ma deve andare dal giudice, con il suo avvocato, avviare una procedura complessa e costosa. È un’altra cosa. La Confindustria potrebbe espellere l’azienda che non applica i contratti firmati dalla confederazione, ma nella realtà non lo si fa.
Con il sistema dell’estensione erga omnes dei minimi salariali contrattuali sarebbe tutto più facile, l’evasione non potrebbe non diminuire.
La cosa più difficile è stabilire quali contratti possono valere per tutti, almeno nella parte salariale. E infatti non è un caso che le disposizioni per l’estensione della validità delle disposizioni salariali variano nei diversi paesi e nel tempo. In Germania in passato l’applicazione del contratto veniva estesa se questo copriva la metà dei lavoratori; adesso l’indicazione è meno precisa. Più sfumata. Da noi se si dovesse dichiarare l’estensione erga omnes di disposizioni salariali contrattuali ci dovrebbe essere un’autorità, magari il governo, che dichiari che quel contratto, fatto dai soggetti più rappresentativo è leader e quindi merita di avere un’applicazione generale della sua parte salariale.
Quindi una scelta deve essere fatta.
Dipende. La proposta di direttiva europea della Commissione stabilisce che non c’è bisogno di una legge che estenda la validità di un contratto se questo ha già un’applicazione pari al 70% dei lavoratori. E’ per questo che i nostri sindacati si sono affrettati ad affermare che da noi la legge non serve perché i contratti hanno un’applicazione superiore al 70%. Ma anche qui occorre verificare bene, perché in tanti settori, nei servizi per esempio, il tasso di applicazione è molto più basso.
Cosa occorrerebbe fare?
Si può andare avanti come si fa adesso, adottando i criteri Inps, o della legge del Cnel; si decide quale è il contratto leader e quello si applica. Ma questo riacutizzerebbe il problema della rappresentanza, perché se finora nessuno ha contestato questa pratica tutto tornerebbe in discussione se si desse valore erga omnes ad alcuni contratti invece che ad altri. Qualcuno, la Ugl o la Confsal, potrebbe dire che i loro contratti non sono stati presi in considerazione, e questo farebbe tornare al centro il problema dei criteri per stabilire quale è il contratto leader e riproporre la necessità di una legge.
Massimo Mascini