Che si vada verso una legge sui temi sindacali, rappresentanza, contrattazione, partecipazione, salario minimo, è ormai quasi certo. Il governo ha lasciato spazio e tempo alle parti sociali, che però non sono state in grado di assolvere il loro compito fino in fondo. Hanno fatto passi in avanti, ma non sufficienti. Di qui l’attesa di una legge. Ma quale legge, su quali argomenti e decidendo cosa? A queste domande de Il diario del lavoro risponde Tiziano Treu, grande giuslavorista da poco entrato nello staff che, sotto la guida di Tommaso Nannicini a Palazzo Chigi, sta studiando come il governo debba intervenire.
Professor Treu, arriverà una legge su contrattazione, rappresentanza e partecipazione?
Dipende. Se le parti fanno passi in avanti per assicurare effettività, una legge non è necessaria.
Il documento Cgil, Cisl e Uil allontana questa prospettiva?
Quel documento è un po’ sotto le aspettative. Ma bisogna distinguere tra i diversi campi. Sulla partecipazione, per esempio, è più avanzato, molto innovativo. Un intervento di legge probabilmente non è urgente, il legislatore può limitarsi a dare degli incentivi, come ha fatto con la legge di stabilità.
Con quale obiettivo?
Per favorire l’estensione delle pratiche partecipative, perché le aziende siano più disponibili. Un passo importante adesso che il sindacato, tutto il sindacato sembra deciso ad andare avanti.
Si tratterebbe comunque sempre di un intervento soft?
Nessuno pensa davvero che il legislatore debba entrare nel merito. Poi magari tra uno o due anni si può anche vedere come funziona il sistema, se effettivamente le realtà partecipative crescono e a quel punto decidere come comportarsi.
Per la rappresentanza?
Su questo tema il discorso è diverso. Il Testo Unico del 2014 è abbastanza completo ed è certamente innovativo. Le parti hanno scritto delle regole precise, il punto è che questo sistema non funziona. Perché le aziende non hanno alcun obbligo a trasmettere i dati sulle adesioni ai singoli sindacati, e perché le legge non vale per tutti, restano fuori tutte le piccole e piccolissime aziende che non sono iscritte ad alcuna organizzazione datoriale.
Per questo servirebbe una legge?
Anche per questo, tanto è vero che perfino la Cisl, la più riottosa ad accettare un intervento di legge, si dimostra adesso favorevole, naturalmente a una legge solo di sostegno.
Ma che tipo di legge potrebbe essere utile?
Dipende dall’obiettivo che si vuole raggiungere. Una legge potrebbe solo fermarsi a fissare una soglia di rappresentatività. Chi è sopra il 5%, contando le tessere sindacali e i voti per le elezioni delle Rsu, può contrattare, tutti gli altri sono fuori. Già questo sarebbe un risultato.
Oppure?
Potrebbe stabilire il diritto delle Rsu a negoziare. Ci sono già delle prese di posizione del legislatore in tal senso, come ha fatto col decreto delegato 81 del 2015, dove si parla di contratti fatti direttamente dalle Rsu. Ma una legge potrebbe anche andare più in là affermando il principio di maggioranza.
Affermare che un accordo approvato dalla maggioranza è valido erga omnes?
Potrebbe farlo. Anche se c’è chi sostiene che in questo modo la legge configgerebbe con l’articolo 39 della Costituzione, che parla di contratti validi per gli iscritti e non erga omnes. Non a caso infatti fino ad ora ci si è attenuti al principio unanimistico.
Ma in questi casi si tratterebbe di interventi leggeri o si entrerebbe nel merito?
In Francia e Germania le leggi al riguardo sono molto descrittive, fino ad affermare come devono essere elette le Rsu e come devono funzionare. Da noi mi sembra improponibile.
Una legge potrebbe intervenire anche sulla struttura contrattuale?
Nessuno ci pensa, questa è materia strettamente propria dell’autonomia delle parti sociali. Il legislatore può dare delle indicazioni e lo ha fatto con quel decreto 81 che abbiamo indicato. Nel momento in cui mette sullo stesso piano la contrattazione nazionale e quella decentrata, questo è un chiaro aiuto al decentramento. Poi può dare più soldi ai contratti decentrati, come ha fatto con la legge di stabilità.
E soprattutto il legislatore può fissare il salario minimo.
Il legislatore potrebbe fare due cose in merito. Estendere erga omnes i minimi salariali di base fissati dai contratti nazionali oppure fissare un livello minimo per tutti i lavoratori indistintamente. Il sindacato considera il primo intervento meno invasivo per la sua autonomia, il secondo ha il vantaggio di valere indistintamente per tutti. I giudici di solito prendono in considerazione i minimi contrattuali, ma potrebbe anche non essere così, mentre una legge li obbligherebbe ad avere solo quel trasferimento. E non sarebbe poca cosa se si considera che un salario di 8 euro e mezzo l’ora, come è in Germania, corrisponde a un salario mensile di 1.300 euro.
E’ fondato il timore dei sindacati di essere scavalcati?
Una ricerca su 15 paesi fatta dal Cnel ha chiarito che un salario minimo fissato per legge può dare fastidio ai sindacati, ma li stimola anche nella loro azione rivendicativa a ottenere qualcosa in più. E poi un salario minimo per legge rivisto annualmente sulla base di parametri certi come l’andamento del Pil o dell’inflazione darebbe certezze e garanzie.
Ma Renzi pensa a qualcosa del genere?
Dipenderà da tanti fattori. Certo si potrebbe vendere bene un provvedimento che assicura un salario di base a tutti, anche a quelli che non sono protetti dal sindacato.
La contrattazione territoriale ha un futuro?
Quella di alcuni settori funziona da sempre, l’edilizia, l’agricoltura per esempio. Poi c’è il modello Treviso. Lì è stato definito un contratto tipo che le singole aziende, anche quelle piccole e piccolissime, possono utilizzare senza dover mettere in piedi una vera e propria contrattazione: le aziende che lo utilizzano godono degli incentivi previsti senza però mettersi i sindacati dentro casa. E poi così si danno una patina di legittimità, mostrano di saper stare ai patti.
A suo avviso la contrattazione può dare una spinta vera per la crescita della produttività, il nostro problema più grave?
Dipende da come è fatta. Se si fa come con il contratto degli alimentaristi di questi giorni, dove sono stati dati aumenti salariali sganciati da obiettivi, al massimo questo è un aiuto ai consumi interni. Se invece fai vera contrattazione in azienda, se colleghi i premi a obiettivi reali di produttività, allora è diverso. La produttività dipende da tanti fattori, dall’innovazione, dalla ricerca, ma la contrattazione può dare un aiuto reale, motivando i lavoratori.
E’ possibile si arrivi una legge per misurare la rappresentatività delle associazioni datoriali?
E’ più che probabile, le stesse associazioni non avrebbero problemi, anzi riceverebbero un aiuto, perché mettere una soglia di rappresentatività per la contrattazione significa sbarazzarsi con un sol colpo di tutte le associazioni più o meno fittizie, che però danno fastidio.
Lei vede vera innovazione nelle relazioni industriali?
Direi proprio di sì. C’è una regolazione più precisa, che può venire anche per via legislativa. E in un’epoca di grandi turbolenze come questa che stiamo attraversando servono regole, specie se evitano i litigi e aiutano invece a far funzionare il sistema.
Pensa che Renzi attenuerà la sua vis polemica verso i sindacati?
Renzi ha subito detto che non si sarebbe fatto fermare quando erano in ballo le cose più importanti. Quando ha varato il Job Acts non ha guardato in faccia nessuno. Adesso ha un atteggiamento diverso, su questi temi ha lasciato spazio e tempo ai sindacati, perché fossero loro a innovare le regole. Se non lo hanno fatto o non lo hanno fatto come era necessario, sarà lui a intervenire, ma senza picchiare.
Massimo Mascini