Elezioni del 27 e 28 marzo 1994. Otto milioni di votanti puntano le loro fiches sulla ruota della neonata Forza Italia. Nella scheda elettorale non ci sono le vecchie etichette politiche. Il Pci è diventato Pds, la Dc ha ripreso il vecchio nome sturziano di Partito Popolare, il Msi corre con il nome di Allenza Nazionale, la Lega Nord si sta consolidando. Il sistema in vigore, il Mattarellum, altra sostanziosa novità, è di tipo maggioritario e Silvio Berlusconi, grazie alle alleanze con Gianfranco Fini e Umberto Bossi, schianta la gioiosa macchina da guerra guidata da Achille Occhetto. E così il Cavaliere, entrato nell’agone solo pochi mesi prima, giura il 10 maggio davanti al Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro. Otto giorni dopo, il suo Milan sbaraglia il Barcellona e conquista la coppa dei campioni. L’uomo di Arcore si avvia a diventare Re Papi.
Quel primo governo durerà solo fino a dicembre ma la seconda repubblica aveva ormai preso il largo. Massimo D’Alema, a metà dell’anno seguente, mentre a Palazzo Chigi siede Lamberto Dini, dà alle stampe un libro, “Un paese normale”, nel quale tira un sospiro di sollievo, cita Franco Modigliani che aveva definito i sette mesi dell’esecutivo Berlusconi una “dolorosa parentesi”, e si dice fiducioso per le sorti della sinistra, anzi del centrosinistra. E auspica la definizione di regole comuni, in una sana alternativa bipolare.
Quante illusioni! Il Caimano, così lo descrisse Nanni Moretti, cade e risorge in continuazione, come il personaggio di un video gioco che più lo colpisci, più prende forza. Un Anteo con i piedi piantati nell’infantile immaginario collettivo di un Paese forgiato, per dirla con l’azionista Umberto Calosso, sotto l’egida della Controriforma, dei Savoia e del Fascismo. Dopo la Liberazione gli italiani in larga misura furono ancora tentati dalla Monarchia e al referendum la scelta repubblicana vinse per un soffio. E poi fu il trionfo della Democrazia Cristiana, in barba ad ogni prospettiva di cambiamento epocale. Coloro che non avevano capito quel che era avvenuto allora, non potevano certo comprendere i successi del Cavaliere.
Amo l’Italia, aveva proclamato il 29 gennaio 1994 nel video messaggio alla Nazione con il quale annunciava la discesa in campo “perché non voglio vivere in un paese illiberale”. Commenta oggi Rosy Bindi: “Con quel discorso, Berlusconi negava i principi fondamentali della nostra costituzione, l’equità e la solidarietà, la responsabilità sociale dell’impresa, mentre promuoveva un individualismo senza regole e l’egoismo liberista. Prometteva un nuovo miracolo italiano fondato sul mito della società civile migliore della politica, del privato più efficiente del pubblico. Iniziava così la delegittimazione della politica”.
Lo storico inglese John Foot rimarca che il 1994 segnò la fine dei partiti di massa: “Il 90% degli eletti con Forza Italia non aveva mai messo piedi in Parlamento. Berlusconi era un populista, il primo ad arrivare al potere in Europa dopo il 1945, che prometteva il taglio delle tasse e un milione di nuovi posti di lavoro. Ma usava anche le armi della storia, in particolare l’anticomunismo”.
È proprio con lui che l’anticomunismo, termine generico per indicare tutto l’arco progressista, diventa predominante rispetto all’antifascismo. L’attuale ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ripete come un mantra questo concetto che rovescia e mistifica la scala valoriale emersa dalla Resistenza.
L’edizione italiana della rivista “Jacobin” ha messo bene in fila tutti i guasti prodotti dal voto del 27 e 28 marzo 1994. La volontà di stravolgere la Costituzione, gli attacchi alla magistratura, la democrazia plebiscitaria, il discredito del Parlamento, il rifiuto delle tasse, il capitalismo senza freni. I cervelli messi in lavatrice con le televisioni e la pubblicità, l’abbandono di un’etica pubblica e privata, le donne meri oggetti di desiderio, il bunga bunga. Ogni settore è stato stravolto, dallo spettacolo al calcio passando per la musica. In nome di un alienante intrattenimento fine a se stesso, del denaro, del potere. Nella radicata convinzione che tutto sia possibile.
Trent’anni dopo, la Destra coltiva, innaffia e raccoglie queste malepiante. Con una volontà prevaricatrice e rabbiosa che fa persino rimpiangere il volto gaudente di Berlusconi. Annota, su Jacobin, Ida Dominijanni: “Veronica Lario, quando di fronte al sexgate piantò in asso suo marito, si lasciò scappare in un’intervista che il peggio non era stato lui ma sarebbe venuto con quelli che avrebbero preso il suo posto. E aveva visto giusto”.
Marco Cianca