Ben tre presidenti americani stanno dando il loro pieno appoggio allo sciopero dei sindacati dell’auto, impegnati in un braccio di ferro contro le big del settore, Ford, Stellantis e General Motors. Tecnicamente si tratta di un presidente in carica, Joe Biden, di un ex, Barack Obama, e di un ex che punta a diventare il prossimo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump.
Era stato proprio Obama a muoversi per primo in sostegno del UAW, il sindacato statunitense dei lavoratori dell’auto, nel momento in cui il 15 settembre hanno deciso di scendere in sciopero per il per un aumento dei salari e contro i rischi della svolta green nel settore auto. Pur avendo lasciato da tempo la Casa Bianca, l’uomo che è rimasto nel cuore e nella testa di molti americani come “my president”, il 16 settembre scorso via Twitter (o come si chiama adesso) ha detto: “quattordici anni fa, quando le tre grandi case automobilistiche lottavamo per restare a galla, la mia amministrazione e il popolo americano intervennero per sostenerle. Lo stesso hanno fatto i lavoratori del settore automobilistico della UAW, che hanno sacrificato retribuzioni e benefici per aiutare le aziende a rimettersi in piedi. Ora che le nostre case automobilistiche stanno godendo di robusti profitti, è tempo di fare la cosa giusta nei confronti di quegli stessi lavoratori, in modo che l’industria possa riemergere più unita e competitiva che mai”.
Il riferimento di Obama è all’anno horribilis 2009, quello della grande crisi finanziaria iniziata nel 2007 col botto dei sub prime e poi molto rapidamente estesasi dalla finanza all’economia reale, mettendo in ginocchio le industrie dell’auto e i fondi pensione a essa collegati. Obama, da pochissimo in carica come presidente, stanziò una cifra enorme per evitare i fallimenti e sostenere il risanamento di un settore che negli Usa è particolarmente cruciale. Da quegli aiuti discese anche l’accordo con Sergio Marchionne per l’acquisto della Chrysler, in seguito fusa con la Fiat dando vita a Stellantis, oggi nel mirino degli scioperi assieme alle altre due case Ford e Gm. Per l’intera operazione all’epoca furono spesi fondi pubblici in grande quantità, ma fu una spesa che tornò con gli interessi, considerando che le big dell’auto riuscirono effettivamente a risollevarsi, contribuendo poi a loro volta a tirare fuori dal pantano l’economia americana. Un’operazione di politica industriale perfetta, che magari se ne facessero qui in Italia. E che giustamente ora Obama ricorda a coloro che ne per primi ne beneficiarono.
Ma qualche giorno dopo l’appello via social di Obama, è sceso in campo direttamente anche Joe Biden (all’epoca suo vice) e con un gesto fortissimo: per la prima volta nella storia, il 26 settembre ha partecipato come presidente degli Stati Uniti in carica a un picchetto operaio in Michigan. “Mi unisco al picchetto per essere solidale con chi lotta per avere una giusta quota del valore che ha contribuito a creare; è tempo per un accordo vantaggioso per tutti, che mantenga fiorente la produzione auto americana con posti di lavoro ben pagati”, ha annunciato Biden. Le foto dell’evento immortalano il presidente col cappellino a visiera del UAW, issato su una pedana di fortuna, con tanto di megafono in mano, accanto a Shawn Fain, carismatico leader del sindacato dell’auto.
Ma in questa corsa al picchetto poteva essere da meno Donald Trump? No, figuriamoci. E allora eccolo cogliere al volo l’occasione e annunciare che andrà a sua volta a Detroit a incontrare i lavoratori. Evidentemente lo sciopero “tira”, o per dirla meglio: la lotta dei lavoratori viene considerata una buona tribuna su cui mostrarsi nel momento in cui si profila l’inizio di una campagna elettorale difficilissima, che sarà preceduta dalle primarie dei Dem e del Gop, a loro volta incertissime. Con metà degli americani che non vogliono né Trump né Biden, a prescindere che siano simpatizzanti dei democratici o dei repubblicani, e che invece si ritroveranno con tutta probabilità a dover scegliere tra Trump e Biden. Dunque ogni voto conta e va conquistato a ogni costo.
La cosa che colpisce è proprio la coincidenza tra la campagna elettorale ormai prossima e questa corsa a schierarsi senza se e senza ma al fianco degli operai in lotta contro le tre big del settore auto: che, non va dimenticato, rappresentano anche tre centri di enorme potere negli Usa; “poteri forti”, di direbbe da noi, e che stavolta però devono cedere il passo agli operai. Che sono di più e probabilmente votano di più. Nelle scorse elezioni del 2020, Biden ottenne il 56 per cento dei voti degli iscritti ai sindacati, Trump solo il 42 per cento. Biden vinse, Trump perse. E il Michigan, epicentro della protesta operaia, è oltretutto considerato uno Stato chiave per la corsa presidenziale del prossimo anno.
La conclusione che se ne potrebbe trarre è: stare al fianco degli operai politicamente paga. In America, almeno. E in Italia? In Italia mai un premier o un presidente hanno fatto nulla di simile. L’unico episodio lontanamente paragonabile a quello che sta succedendo in Usa è la visita di Enrico Berlinguer ai cancelli di Rivalta e Mirafiori, nel 1980, durante lo storico braccio di ferro tra i sindacati e la Fiat. Ma Berlinguer era comunque il capo del partito comunista, e certamente non aveva incarichi di governo. Una visita, la sua, che proprio per la sua “eccezionalità” è entrata nei libri di storia; cosi come ci è entrata la sconfitta durissima che purtroppo i sindacati subirono poco dopo, sancita dalla Marcia dei quarantamila che mise la parola fine alle lotte per anni e anni. Ai sindacati americani si augura naturalmente di avere miglior fortuna, ma ai governanti italiani, di destra e di sinistra, non si può che augurare di cogliere la gran lezione che viene dall’America. Anche da noi si voterà, e hai visto mai che Maurizio Landini e le sue piazze diventino un polo di attrazione non solo per i leader di sinistra.
Nunzia Penelope