Con le sentenze n. 2115 e n. 2116 del 1° marzo 2023, il Consiglio di Stato (C.d.S.) ha annullato la Regolamentazione provvisoria della Commissione del settore del Trasporto Pubblico Locale (delibera n. 18/138 del 23 aprile 2018) e, in particolare, la regola che ha aumentato a 20 giorni l’intervallo tra azioni di sciopero, rispetto alla precedente Regolamentazione provvisoria (delibera n. 02/13 del 31 gennaio 2002), nella quale tale intervallo era di 10 giorni.
Accogliendo i ricorsi delle Organizzazioni sindacali FILT-CGIL e FIT-CISL,. il C.d.S. ha ritenuto tale ampliamento della rarefazione tra un’astensione e l’altra, nello stesso bacino territoriale di utenza, un pregiudizio per l’esercizio del diritto di sciopero, in quanto non sufficientemente motivato sotto il profilo della proporzionalità nel contemperamento tra diritti costituzionali. Tale principio di proporzionalità, argomentano i Giudici amministrativi, è richiamato anche all’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (7 dicembre 2000 – 12 dicembre 2007) che, nel loro contenuto essenziale, possono essere limitati “solo laddove ciò sia necessario e giustificato da finalità di interesse generale o dall’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Di conseguenza, la Commissione avrebbe dovuto “prima di poter comprimere un diritto costituzionalmente garantito, quale è il diritto di sciopero, raddoppiando il periodo di rarefazione … accertare … se fosse tendenzialmente aumentato nel corso degli ultimi anni il disagio effettivo arrecato all’utenza”.
In verità, è proprio questa esigenza di tutela del diritto alla mobilità del cittadino che ha inspirato la scelta della Commissione, orientata ad evitare una compromissione della continuità del servizio, per effetto di proclamazioni ravvicinate di sciopero. Scelta motivata dal significativo incremento degli scioperi, soprattutto a livello locale (documentato su un arco temporale dal 2014 al 2017), proclamati quasi esclusivamente da organizzazioni sindacali poco rappresentative e con adesioni minime.
Val la pena riportare i dati forniti dall’Autorità: nel 2014 sono stati proclamati 331 scioperi ed effettuati 205; nel 2015, 377 scioperi proclamati ed effettuati 281; nel 2016, 368 proclamati ed effettuati 250; nel 2017, 443 proclamati ed effettuati 318. La maggior parte di queste astensioni si concentra nel Lazio e la Campania. Naturalmente, la Commissione per poter valutare la sostanziale compromissione del servizio ha dovuto considerare il dato complessivo, dal momento che è ormai evidente come il pregiudizio per i cittadini utenti venga arrecato dalla proclamazione in sé, indipendentemente dalla concreta attuazione degli scioperi, o anche di una loro successiva revoca.
È vero che oggi, di fronte ad una più diffusa quanto frammentata conflittualità, bisognerebbe acquisire dati certi sull’effettivo impatto dello sciopero sulla continuità del servizio pubblico e la compressione della libertà di circolazione degli utenti. In altre parole, accertare effettivamente quale sciopero possa compromettere, concretamente, l’erogazione del servizio. Ma come si fa a raggiungere tale obiettivo in assenza di una legge che verifichi l’effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali proclamanti? Si potrebbe invocare un dovere del lavoratore a dichiarare preventivamente la propria adesione allo sciopero, almeno limitatamente ad alcuni servizi pubblici essenziali, proprio per poter stimare, in concreto l’impatto dell’astensione. Tale soluzione, tuttavia, ha sinora incontrato una recisa (ed anche incomprensibile) ostilità anche da parte delle maggiori Organizzazioni sindacali.
L’Autorità di garanzia ha cercato di responsabilizzare le aziende verso una valutazione preventiva dell’impatto dello sciopero, per far sì che la riduzione dei servizi possa essere commisurata all’effettiva incidenza di questo e non semplicemente a quella soglia indicata dalla legge, al di sotto della quale non si può scendere. Ciononostante, ci si trova spesso di fronte ad astensioni con adesioni insignificanti che, tuttavia, riescono a compromettere in modo importante l’intero servizio. Ciò, non solo per il ben noto effetto annuncio, ma anche perché le aziende di trasporto, nel dubbio (o per comodità), riducono il servizio alle sole fasce orarie, con la conseguenza che anche astensioni sulla carta insignificanti, finiscono per avere la stessa incidenza di altri scioperi ben più rilevanti.
Dopo l’adozione di questo più ampio termine di rarefazione, l’Autorità di garanzia ha avuto modo di verificare come la nuova disciplina – dal numero delle astensioni proclamate ed effettuate – non abbia comportato una limitazione sproporzionata nell’esercizio del diritto di sciopero. Mentre, invece, si è avuto, già nel 2018, un immediato effetto calmierante sul numero delle proclamazioni nel trasporto pubblico locale (302 a fronte delle 443 dell’anno precedente) ed anche degli scioperi effettuati (223 contro le 318 del 2017). Non credo si possa sostenere che si tratti di numeri che mortifichino la rilevanza costituzionale del diritto di sciopero; si tratta, piuttosto, di un tentativo di miglior bilanciamento delle esigenze di tutela dei cittadini utenti, rispetto ad una eccessiva reiterazione ravvicinata di proclamazioni.
Questa ricostruzione era stata ritenuta legittima, in primo grado, dal TAR con le decisioni del 9 dicembre 2019, n. 14079 e n. 14078, nelle quali, tra l’altro, era ribadito il riconoscimento di una necessaria discrezionalità tecnica che consenta al Garante dei margini di definizione delle prestazioni indispensabili e dei tempi di rarefazione, in caso di inerzia o inadeguatezza dell’autonomia collettiva.
Il Consiglio di Stato, prima di emettere la sua decisione, ha chiesto ed acquisito dal Ministero dei Trasporti un report sui dati degli scioperi, nel quinquennio 2013-2017. In tale report, elaborato comparando i dati dell’Osservatorio dei Trasporti e quelli del Calendario scioperi della Commissione di garanzia, il Ministero ha confermato l’incremento degli scioperi in misura addirittura superiore a quella indicata dalla Commissione nella delibera di Regolamentazione, poi annullata dal C.d.S. Evidentemente, tale Giudice, di fronte a questi dati, vale a dire più di 302 proclamazioni e oltre 223 astensioni concretamente effettuate nel 2018, ha ritenuto, comunque, maggiormente pregiudicato il diritto di sciopero, rispetto al diritto alla mobilità degli utenti.
Può essere, questa, una conclusione meritoria e legittima, ma che comunque sarebbe opportuno spiegare meglio anche ai cittadini utenti del servizio di trasporto pubblico.
Peraltro, la valutazione del Consiglio di Stato va poi oltre la ritenuta inadeguatezza sotto il profilo motivazionale e indica alla Commissione come “l’unico metodo da seguire per comprendere se effettivamente il trend degli scioperi (vale a dire la loro concreta effettuazione, n.d.r.) nel settore del trasporto pubblico locale sia stato, negli ultimi anni, caratterizzato da una naturale tendenza all’incremento rilevante o meno”. In tal modo però, il suddetto Giudice mostra di ignorare come il danno all’utenza, soprattutto nel servizio di trasporti, sia determinato anche dall’effetto annuncio, indipendentemente dall’effettuazione dello sciopero.
Non solo, il C.d.S. ritiene, altresì, necessario – affinché l’istruttoria possa ritenersi esaustiva – valutare il dato relativo alla durata dell’astensione, vale a dire, al numero dei giorni in cui questa si sia sviluppata. Anche in tale passaggio, il Giudice amministrativo mostra di ignorare che nel settore del trasporto pubblico locale l’azione di sciopero può avere la durata massima di 24 ore, pertanto, le giornate di sciopero coincidono necessariamente con la loro proclamazione.
Vieppiù, nel ritenere il provvedimento non sufficientemente motivato, sotto il profilo della proporzionalità, il Consiglio di Stato ha ritenuto di invitare la Commissione a richiedere ulteriori dati alle “istituzioni di prossimità” (le Prefetture), “Trattandosi di trasporto pubblico locale ed avendo la singola astensione un impatto immediatamente tangibile in un ambito territoriale” (ovviamente! n.d.r.). Concludono i Giudici di Palazzo spada che “Sarà cura della Commissione riesercitare motivatamente il proprio potere, alla stregua dei poteri di indagine sopra indicati, all’esito deliberando se confermare nel doppio l’innalzamento del periodo di rarefazione o se lasciarlo del tutto invariato. Ovvero se adottare soluzioni intermedie”. Sembra questa un escamotage, nel senso che la Commissione potrebbe riconfermare la propria scelta, rimotivandola.
In ottemperamento a tale indicazione, la Commissione ha interpellato tutte le Prefetture d’Italia, le quali hanno evidenziato di non avere elementi ulteriori e diversi rispetto a quelli già in possesso della Commissione e pubblicate sul sito istituzionale, al quale le stesse Prefetture accedono per acquisire i dati. Ciò premesso, i Prefetti hanno ritenuto importante ribadire come l’impatto degli scioperi sugli utenti del trasporto pubblico locale non derivi unicamente dalla concreta attuazione delle astensioni, ma altresì dal cosiddetto “effetto annuncio”.
Anche, le Associazioni dei consumatori e utenti sollecitate dalla Commissione, hanno sottolineato l’importanza del dato “virtuale”, che vede il pregiudizio per l’utenza procurato, già di per sé, dalla eccessiva e reiterata proclamazione di scioperi. Tali Associazioni degli utenti, richiamando le segnalazioni e le informazioni pervenute dalle loro Delegazioni territoriali, hanno voluto confermare come la modifica apportata dalla Commissione, nel suo effetto di redistribuzione nel tempo degli scioperi, abbia, effettivamente, portato un beneficio al cittadino-utente.
Adesso, al di là di come si concluderà questa (a tratti surreale) vicenda, due considerazioni finali sembrano opportune.
La prima. Sorprende che i ricorrenti avverso la delibera della Commissione siano proprio le maggiori Confederazioni sindacali alle quali si deve riconoscere una prassi di serietà nella interpretazione del conflitto collettivo, nel senso che esse fanno dello sciopero uno strumento al quale ricorrere non certamente per avere visibilità, ma raramente e per delle serie motivazioni, collegate a grandi vertenze. Appare singolare che tali Confederazioni siano, pertanto, pregiudizialmente ostili verso soluzioni rivolte ad arginare un’eccessiva micro-conflittualità, ad opera di soggetti poco rappresentativi, che si rivela spesso un ostacolo a conflitti collegati a rilevanti vertenze.
La seconda. Anche se ultimamente se ne registrano interpretazioni ampie (nomine dei Direttori dei Musei, permessi alle grandi navi da crociera di entrare nel Canal Grande di Venezia), la competenza dei giudici amministrativi rimane circoscritta alla legittimità degli atti amministrativi. Nell’ambito del conflitto collettivo tali giudici decidono sulla sospensione delle ordinanze di precettazione e, dunque, se autorizzare o meno lo sciopero. Nella vicenda qui trattata, hanno anche dato delle indicazioni all’Autorità di garanzia su come integrare il requisito di proporzionalità in tema di bilanciamento tra diritti costituzionali, interpretando, di fatto, i margini della discrezionalità tecnica di un’Autorità indipendente (con buona pace del self restraint più volte richiamato, in materia, per i giudici ordinari). Ebbene, con il massimo rispetto per la cultura giuridica di TAR e C.d.S., credo che si dovrebbe riflettere sull’opportunità che questi divengano i giudici del conflitto collettivo.
Giovanni Pino
* Come sempre, le opinioni in questo blog sono espresse a titolo personale, come studioso della materia.