Gianni Arrigo
1. Con il decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 18, il legislatore italiano ha dato ‘attuazione [alla] direttiva 98/50, relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti’ (Gazz. Uff. n. 43, del 21 febbraio 2001), modificando l’art. 2112 del cod. civ. e l’art. 47 della l. n. 428/1990 (con il quale lo Stato italiano aveva tardivamente recepito la dir. n. 77/187).
2. Com’è noto, la dir. n. 98/50 aveva novellato la precedente dir. n. 77/187, di analogo contenuto. Il testo della dir. n. 077/187, in vari punti generico o approssimativo, aveva suscitato un notevole contenzioso giudiziario, con frequenti rinvii alla Corte di Giustizia. Quest’ultima, attraverso una decennale giurisprudenza, aveva contribuito alla ricostruzione di alcune parti della suddetta direttiva influenzando profondamente gli orientamenti delle Corti nazionali e le normative interne. L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria, unita ad altri fattori, ha condizionato pertanto l’adozione della dir. 98/50, che voleva inoltre tener conto della tutela offerta da altre direttive, come quella concernente l’insolvenza del datore di lavoro (dir. n. 80/987) e quella sui diritti di informazione e consultazione nelle imprese di ‘dimensione comunitaria’ (dir. n. 94/45), specie con riferimento alle ipotesi sempre più diffuse di trasferimenti o concentrazioni di imprese aventi dimensioni transnazionali, nelle quali i centri decisionali sono ubicati in uno Stato membro diverso da quello in cui sono occupati i lavoratori interessati.
3. Come premesso, le modifiche introdotte al testo dell’art. 2112, cod. civ., e dell’art. 47 della l. n. 428/1990 sono di sicuro rilievo.
3.1. – Per quanto riguarda le modifiche all’art. 2112, si ricorda anzitutto che, facendo proprio un univoco orientamento giurisprudenziale, il legislatore si riferisce non più alle figure di ‘acquirente’ e di ‘alienante’ ma a quelle generiche di ‘cedente’ e di ‘cessionario’. In secondo luogo, viene adottata una nozione di trasferimento d’azienda che riprende quella elaborata dalla giurisprudenza comunitaria. Infatti, il nuovo co. 5 del nuovo art. 2112, superando la nozione di azienda contenuta nell’art. 2555, cod. civ., precisa che l’oggetto del trasferimento d’azienda è costituito da ‘un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, alfine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva la propria identità’. Il legislatore, inoltre, rielaborando ancora una volta una nozione coniata dalla giurisprudenza comunitaria, disciplina il trasferimento del ‘ramo d’azienda’, di cui offre anzi una apposita definizione normativa, intendendo per tale l”articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata […]’. Il legislatore ha anche tentato di dare una risposta ai quesiti concernenti la disciplina collettiva applicabile ai rapporti di lavoro trasferiti al cedente, che erano alla base di contrasti giurisprudenziali. Il nuovo co. 3° dell’art. 2212, facendo proprio un orientamento della giurisprudenza italiana, ribadisce il principio della sostituzione automatica del contratto collettivo applicato nell’azienda del cedente ad opera di quello applicato nell’azienda del cessionario, precisando che tale ‘effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello’.
3.2.- Altrettanto significative sono le modifiche dell’art. 47 della l. n. 428/1990, dal d. lgs. n. 18/2001 (concernenti i commi da i a 4). In base ai nuovo testo, il cedente e il cessionario hanno l’obbligo di informare le rispettive Rsu o Rsa, o in mancanza i ‘sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi’, anche della ‘data o data proposta del trasferimento’ d’azienda o ‘di una parte di azienda’ (norma introdotta dalla dir. n. 98/50) almeno venticinque giorni prima che sia ‘perfezionato i atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un’intesa vincolante tra le parti, se precedente’ (comma 1), intendendosi con ciò probabilmente non solo la stipulazione di un eventuale contratto preliminare, ma anche la formulazione di una qualsiasi proposta di carattere commerciale finalizzata al progettato trasferimento, che una volta accettata obbligherebbe il cedente. Il mancato rispetto, da parte del cedente o del cessionario, degli obblighi di informazione – e non più solo di avviare un esame congiunto – costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (comma 3°). Infine, il nuovo comma 4, dell’art. 47 prevede che ‘gli obblighi di informazione e dì esame congiunto […] devono essere assolti anche nel caso in cui la decisione relativa al trasferimento sia stata assunta da un’impresa controllante’, fermo restando che la ‘mancata trasmissione […] delle informazioni necessarie’ da parte dell’impresa controllante, non vale a giustificare ‘l’inadempimento dei predetti obblighi’ del cedente e del cessionario.
4. Le modifiche in commento, pur significative, non sembrano in ogni caso tali da ‘stravolgere’ il senso della normativa comunitaria, da cui peraltro sono originate, né la ratio della previgente normativa interna.
4.1.- A tal proposito è opportuno ricordare che la precedente formulazione dell’art. 47, l. n. 428/1990, prevedeva che, in caso di trasferimento di un’azienda in cui fossero occupati più di quindici lavoratori, ‘l’alienante e l’acquirente’ dovessero ‘darne comunicazione per iscritto […] alle rispettive rappresentanze sindacali costituite […] nelle unità produttive interessate, nonché alle rispettive associazioni di categoria’. La stessa norma definiva poi analiticamente il contenuto dell’informazione, concernente i ‘motivi del programmato trasferimento d’azienda; le sue conseguenze giuridiche economiche e sociali per i lavoratori; le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi’. Ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, le Rsa, oppure i sindacati di categoria, potevano richiedere per iscritto che l’alienante e l’acquirente si rendessero disponibili ad avviare con loro un ‘esame congiunto’ dell’operazione progettata. Una volta richiesto, lo svolgimento di questo incontro era obbligatorio (anche se la stessa norma opportunamente precisava che esso non doveva necessariamente concludersi con un’intesa tra le parti interessate). Ciò era confermato dal fatto che ‘il mancato rispetto, da parte dell’acquirente o dell’alienante, dell’obbligo di esame congiunto costitui[va] condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 della l. 20 maggio 1970, n. 300’. Il legislatore del 1990 aveva in tal modo perseguito un duplice scopo: a) quello di rafforzare il diritto del sindacato di essere protagonista e non semplice spettatore delle trattative e dell’accordo di trasferimento dell’azienda: b) quello di semplificare il compito del giudice, sussumendo a priori nella fattispecie normativa dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori determinati comportamenti.
4.2.- Si deve inoltre ricordare che la prevalente dottrina e giurisprudenza avevano ragionevolmente collegato il primo comma dell’art. 47 (relativo cioè all’obbligo di informazione) col secondo comma del medesimo articolo (relativo all’obbligo di esame congiunto) desumendone che fosse stata tipizzata come antisindacale anche la eventuale violazione del ‘diritto di informazione’ sindacato in merito al progetto di trasferimento, ed in particolare il mancato invio della comunicazione prevista dalla prima parte della norma, strumentale all”esame congiunto’ di cui s’è detto. La qualificazione di condotta antisindacale doveva cioè ritenersi estensibile anche al mancato rispetto delle procedure di informazione (o alla comunicazione di informazioni false o incomplete), stante il loro carattere di strumentalità rispetto all’esame congiunto, dato che quest’ultimo risulterebbe impraticabile in caso di totale omissione delle informazioni o sarebbe comunque destinato, il più delle volte, a fallire se le informazioni rese alle rappresentanze sindacali fossero carenti (sul punto cfr, fra le numerose pronunzie dei giudici di merito, Pret. Lecce, 27.7.1998, Pret. Udine, 9.8.1995, Pret. Pistoia, 13.4.1994; Pret. Napoli 7.12.1993, Pret. Milano, 29.6.1992).
4.3. – Proprio in considerazione della stretta interazione tra gli obblighi di informazione e quelli di consultazione, e del rilievo assorbente delle procedure di informazione e consultazione sindacale ‘al fine di ricercare un accordo’, ai sensi dell’art. 6.2, la Corte aveva condannato il Regno Unito, perché la normativa britannica di recezione della dir. n. 77/187 [cioè il Transfer of Undertakings (Protection of Emplovment Regulations del 1981, parzialmente modificato dal Trade Union Ref of Rights Act del 1993] non garantiva ‘una corretta attuazione della direttiva’. Le norme suddette si limitavano infatti ad ‘obbliga(re) semplicemente il cedente o il cessionario che intenda adottare provvedimenti nei confronti dei lavoratori interessati da un trasferimento ad avviare consultazioni con i rappresentanti sindacali da esso riconosciuti, a prendere in considerazione tutte le osservazioni formulate da tali rappresentanti, a rispondere a dette osservazioni e, se le respinge, a indicarne i motivi, mentre l’art. 6.2 […] impone di consultare i rappresentanti dei lavoratori ‘al fine di ricercare un accordo’ (CGE, Commissione c. Regno Unito, 1994, punto 48). Rispetto alla precisazione fatta dalla Corte di Giustizia sembra pertanto allineata la normativa italiana di recezione, secondo cui ‘il mancato rispetto […] degli obblighi previsti nei commi 1 e 2 costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’art. 281…].
4.4.- Resta naturalmente riservata al giudice, sia nella fase sommaria, sia nella fase eventuale a cognizione piena in seguito a opposizione (del provvedimento da parte del datore di lavoro), ogni valutazione sulla fattispecie dedotta nel ricorso, e cioè, ad esempio, sugli eventuali motivi della mancanza o della incompletezza della comunicazione al sindacato, ovvero sulla tempestività della presentazione della richiesta scritta da parte del sindacato, oppure sui motivi per cui l’esame congiunto non era stato avviato, ovvero sulle attività minime di convocazione che era (ed è) lecito pretendere da alienante ed acquirente entro i sette giorni previsti dalla norma. Quanto al contenuto del provvedimento del giudice, non v’era (e non v’è) dubbio che questi, più che ordinare la cessazione di un comportamento, in realtà poteva – e doveva – condannare i due intimati (cioè l’alienante e l’acquirente) ad un facere, e cioè a provvedere alla comunicazione (o alla integrazione della comunicazione) ai sindacati, oppure rendersi attivamente disponibili per l’incontro con il sindacato richiedente.
4.5. – Venendo infine alle sanzioni in caso di inottemperanza – del datore di lavoro al decreto o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione – fermo restando il disposto del quarto comma dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (secondo cui ‘il datore di lavoro inottemperante è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale) parte della giurisprudenza ha ritenuto, nel vigore del precedente art. 47, che potessero aversi conseguenze negative anche sul trasferimento nel frattempo perfezionatosi, di cui veniva ritenuta la totale invalidità, ovvero, come sembrava preferibile, la inefficacia nei confronti dei lavoratori (Pret. Udine, 9 agosto 1995; secondo Pret. Nola, 29 gennaio 1997, ‘la procedura collettiva designata dall’art. 47, L. n. 428/190, integra un elemento costitutivo della fattispecie complessa a formazione progressiva sul trasferimento d’azienda ed in mancanza Odi essa non si producono gli effetti del trasferimento’).
La Corte di Cassazione (Sent. 4 gennaio 2000, n. 23) si è invece pronunciata nel senso che il diritto all’informazione e consultazione esaurisce i suoi effetti all’interno delle relazioni tra datore di lavoro cedente e cessionario e rispettive organizzazioni sindacali, senza tracimare nella sfera del rapporto individuale di lavoro. Di modo che ‘il mancato adempimento dell’obbligo di informazione del sindacato costituisce comportamento che viola l’interesse del destinatario delle informazioni, ossia il sindacato, ed è pertanto – sussistendone i presupposti-configurabile come condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. n. 300/1970, ma non incide sulla validità del negozio traslativo, non potendosi configurare l’osservanza delle suddette procedure sindacali alla stregua di un presupposto di legittimità (e quindi un requisito di validità) del negozio di trasferimento’.
Di conseguenza, l’ordine giudiziale di rimozione degli effetti della condotta antisindacale riguarda le ‘conseguenze’ e le ‘misure’ che si sono prodotte in capo ai lavoratori ceduti senza che esse siano state oggetto dei preventivo confronto sindacale.
Mentre il negozio di trasferimento dell’azienda – non essendo oggetto esso stesso del confronto sindacale – non può essere ‘rimosso’ in quanto l’effetto della condotta antisindacale non può riverberarsi su tale negozio.
In dottrina il mancato rispetto delle procedure d’informazione è variamente interpretato: rappresentando una condizione di validità del negozio di trasferimento (Pera, 1993; Perulli, 1992; Guaglianone, 1992) o di efficacia (Lambertucci, 1992), ovvero spiegando effetti non sul negozio traslativo ma solo sugli eventuali provvedimenti nei confronti dei lavoratori interessati che ne costituiscono conseguenza immediata e diretta (Tosi, 1991; Maresca, 1992; Romei, 1993).