Con ogni probabilità “smart working” è il termine, dopo “pandemia”, più citato dalla stampa e nei social negli ultimi due anni. Se ne spiega agevolmente il perché: tra le varie misure di distanziamento prevenzionale che l’emergenza Covid ha (aveva) imposto (ancorché nel settore privato con la blanda formula della “raccomandazione”) vi era proprio la remotizzazione del lavoro. Pandemia ed asserita diffusione dello smart working hanno dunque percorso lo stesso lungo cammino.
Basterebbe questa premessa per comprendere l’equivoco di fondo: la remotizzazione del lavoro anziché essere ascritta ad una forma coatta di telelavoro indotto da esigenze di ordine pubblico sanitario (ed economico: al fine di poter proseguire, pur tra molte difficoltà, tutto il lavoro possibile) e dunque anziché essere qualificata per quello che era (e talvolta ancora è), ossia una modalità di “lavoro da remoto forzato”, è stata (dalla politica e da taluni apostoli dell’avvento di una presunta “rivoluzione” organizzativa) rapidamente, ma anche troppo frettolosamente, qualificata come “lavoro agile” o, appunto, smart working.
Tutto ciò, si badi, nonostante l’assenza di almeno due elementi essenziali perché si potesse parlare di “lavoro agile”: l’accordo individuale e la libera adesione del lavoratore a questa modalità di esecuzione della sua prestazione.
Più recentemente il tema è nuovamente assurto agli onori delle cronache per via di due documenti sui quali la stampa, la politica e il mainstream della consulenza specializzata in materia si sono ampiamente soffermati. Si tratta di due distinti atti di indirizzo rivolti al settore del pubblico impiego e a quello del lavoro privato.
Le “Linee-guida” per il pubblico impiego
Il primo di tali atti ha assunto la forma delle “Linee guida in materia di lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche” diramate il 30 novembre 2021 dal dicastero della Funzione Pubblica tenuto dall’On. Renato Brunetta. È un documento importante perché informerà dei suoi contenuti tutta la contrattazione nazionale del pubblico impiego attualmente in fervente fase di rinnovo.
Le “Linee-guida” precisano che il lavoro agile non è esclusivamente uno strumento di conciliazione vita-lavoro, ma anche “uno strumento di innovazione organizzativa e di modernizzazione dei processi” talché “l’amministrazione nel prevedere l’accesso al lavoro agile ha cura di conciliare le esigenze di benessere e flessibilità dei lavoratori con gli obiettivi di miglioramento del servizio pubblico nonché con le specifiche necessità tecniche delle attività“.
Un’affermazione che non fa una piega considerando i compiti istituzionali e di valore collettivo che si esprimono nel (e con) il lavoro pubblico. E invece: apriti cielo! Quella precisazione ha trasformato il Ministro nell’oggetto di una serie di strali partiti da coloro i quali nello smart working emergenziale (quindi scollegato da qualsivoglia previa analisi delle condizioni tecnico-organizzative delle singole PA) vi avevano visto il messianico avverarsi di una profezia di cambiamento definitivo del lavoro e della vita dei lavoratori pubblici.
Si è trattato di attacchi che hanno fatto seguito a quelli precedenti, orditi in occasione della decisione ministeriale di far riprendere in maniera ordinaria il lavoro in presenza (nella fatidica data del 15 ottobre 2021): in quel caso si era finito per gridare financo ad un caso di luddismo nei confronti di un’innovazione che si riteneva ormai non solo non più reversibile, ma neppure da porsi in subordine rispetto al lavoro in presenza (ricordiamolo: una pretesa innovazione frutto di un’emergenza pandemica planetaria e non già di un cambio di paradigma organizzativo e manageriale, né di un’intervenuta completa digitalizzazione dei processi amministrativi e neppure derivante da una ricognizione esatta dei ruoli effettivamente “smartabili”, come li aveva a suo tempo definiti l’ex Ministro della Funzione Pubblica Fabiana Dadone che aveva ceduto la poltrona con l’avvento del Governo Draghi).
Il “Protocollo” per il lavoro privato
Il secondo documento (il “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” del 7 dicembre 2021) si riferisce al settore privato ed è stato sottoscritto, con il Ministro del Lavoro Andrea Orlando, da ben ventisei organizzazioni sindacali, in rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Un atto che richiama i fasti della concertazione e che, a differenza delle “Linee-guida” di Brunetta, è stato accolto da un grande entusiasmo generale. La stampa, i social e gli immancabili “esperti”, lo hanno salutato come la pietra miliare di future leopardiane “magnifiche sorti e progressive” del “lavoro agile”.
Tuttavia, i più attenti lettori del “Protocollo” non hanno lesinato qualche critica, non foss’altro perché tutto quell’entusiasmo proprio non si riusciva a comprenderlo atteso che il documento, nella sua buona sostanza, non era altro che la riproposizione dei contenuti della legge 81/2017 che disciplinava già il “lavoro agile” negli stessi termini ora riproposti.
Il “Protocollo”, in effetti, nessuna novità di rilievo ha portato alla materia se non una supposta attribuzione di maggiore rilevanza alla contrattazione collettiva che, invero, aveva già da sé conquistato spazio (sin dall’origine e poi proprio durante la pandemia) disciplinando migliaia di accordi aziendali relativi all’introduzione del “lavoro agile”.
Si deve poi rilevare che il “Gruppo lavoro agile” cui si deve il contenuto del documento non deve avere del tutto ben registrato la portata del fenomeno che andava descrivendo perché, a detta degli stessi estensori del “Protocollo”, il “lavoro agile” durante la pandemia sarebbe “più che raddoppiato rispetto al periodo pre-pandemico” mentre è appena il caso di rilevare come semmai sia decuplicato (bastava leggere i dati dell’ “Osservatorio Smart Working” del Politecnico di Milano o anche il Report ISTAT su “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19″, pubblicato il 14.12.20).
Non c’è molto da segnalare su questo documento se non che il “Protocollo” prevede (art. 15) che le Parti sociali hanno concordato sulla “necessità di incentivare l’utilizzo corretto del lavoro agile” (e ci mancherebbe!) e che a tal fine potrebbe essere utile “un incentivo pubblico destinato alle aziende che regolamentino il lavoro agile con accordo collettivo di secondo livello” che preveda “un utilizzo equilibrato tra lavoratrici e lavoratori e favorendo un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale”.
In disparte il fatto che non si vede come le Parti sociali non possano che concordare un «utilizzo corretto», non si comprende perché le imprese dovrebbero ricevere un incentivo fiscale per il solo fatto di organizzare il lavoro in maniera coerente con l’evoluzione tecnologica ed organizzativa che qualunque imprenditore che sia tale affronta nell’esercizio ordinario della sua attività.
Né si vede come lo smart working possa essere piegato a finalità diverse come la parità di genere da esprimere in un’alternanza di lavoratori in “smart” sulla base non già di esigenze organizzative e produttive, ma, appunto, di genere.
Quanto all’ “incentivo pubblico”, poi, andrebbe semmai rafforzato l’incentivo a creare contesti partecipativi “diretti” (come già avviene con l’incentivo ai premi di risultato laddove vi siano meccanismi di “partecipazione paritetica”) perché la vera spinta che le aziende devono ricevere – in vista di quel cambio di paradigma gestionale che costituisce uno dei presupposti del reale “lavoro agile” e la direzione verso cui devono tendere sul piano dell’innovazione organizzativa – è proprio quella verso la partecipazione dei lavoratori alla progettazione del lavoro, della sua qualità, del suo significato e del suo valore e quindi alla trasformazione organizzativa complessiva dell’impresa della quale lo smart working è una manifestazione.
Quello che evidentemente non è chiaro in sede sindacale e politica è che non si attivano, né si diffondono nuovi paradigmi organizzativi con atti tipicamente otto-novecenteschi come i “Protocolli” (occorre “svecchiarsi”, come ha detto recentemente Roberto Benaglia proprio al “Diario del Lavoro” ricordando che il post-pandemia sarà “un mondo nuovo”).
Occorre quindi portare sul tavolo soluzioni realmente innovative che possano far “fiorire” le persone, le loro competenze e le loro capacità ed innovare realmente le aziende e le relazioni industriali: era questa, del resto, la strada tracciata dal “Patto per la Fabbrica” e da alcuni altri importanti recenti passaggi condivisi a livello interconfederale. Neppure a questi ha pensato di riferirsi il “Protocollo”, né il documento ha cercato di agganciare alcuni dei suoi contenuti coordinandoli con le missioni del PNRR e i target SDGs più direttamente ad essi collegabili, creando così una visione più ampia delle sfide da affrontare.
Nessun riferimento, poi, neppure a “Transizione 4.0″ che pure è direttamente coinvolta dallo sviluppo e dalla diffusione delle prassi “agili” del lavoro e dalla sua connotazione “ibrida” che sta maturando nelle pratiche aziendali e della contrattazione di secondo livello. Insomma: un’occasione mancata, soprattutto dalle ventisei sigle sindacali.
Progetti di legge
Dove rivolgere lo sguardo, allora, per poter intravedere reali nuovi scenari?
Siamo fortunati perché ciò che non possono fare “Linee-guida” e “Protocolli” potrà forse esserci offerto da alcune proposte che s’incaricano di voler riformare l’impianto della legge 81/2017 il quale, ricordiamolo, ha un pregio che non deve mai essere dimenticato: è, pur con alcune carenze, un articolato “leggero”, uno strumento di nudging che, come tale, spinge le imprese, i lavoratori e i sindacati – senza forzarli – verso l’adozione di una modalità esecutiva del lavoro che non solo preserva la libertà delle imprese nel disegnare la propria organizzazione rispetto ai propri legittimi obiettivi, ma fa salva anche la libertà dei lavoratori coinvolgendoli (e qui sì che bisognerebbe essere più incisivi) in un percorso di co-progettazione del lavoro da definire con i manager sfruttando quello spatium deliberandi che l’accordo individuale presuppone quando di quel lavoro se ne definisce il contenuto e se ne stabiliscono gli obiettivi, non meno che i risultati attesi e le modalità per misurarli.
Il “lavoro agile” può essere “letto” anche come meccanismo con il quale sviluppare fiducia e responsabilizzazione reciproca tra lavoratori e azienda e quindi, su questo importante “capitale sociale”, avviarsi verso prassi di diretto coinvolgimento dei lavoratori nell’organizzazione complessiva del lavoro grazie alle quali una ormai sufficiente casistica ci racconta di imprese che hanno migliorato le proprie performance e il proprio complessivo contesto organizzativo proprio attraverso percorsi i quali – ivi incluso il “lavoro agile” – non sono mai disgiunti da profonde trasformazioni di carattere, anzitutto, culturale che investono imprenditori, dirigenti e lavoratori chiamati, tutti, a ripensare il lavoro e a ripensarsi essi stessi come lavoratori.
Veniamo allora ai progetti di legge sperando di poter trovare qui qualche utile indicazione capace di farci assaporare il gusto dell’innovazione che investirà il lavoro tramite la sua declinazione “smart”.
In particolare, suddivisi per argomenti, enucleeremo il meglio di ben otto progetti di legge (pdl) che sono state presentati tra il 2019 e il 2021 in materia di “lavoro agile”. Si tratta dei seguenti (fonte: Camera dei Deputati – Servizio Studi – dossier n. 461): A.C. 2282 Gagliardi (Coraggio Italia); A.C. 2417 Barzotti (M5S); A.C. 2667 Lucaselli (Fratelli d’Italia); A.C. 2685 Vallascas (M5S); A.C. 2817 Serracchiani (PD); A.C. 2908 Villani (M5S); A.C. 3027 Mura (PD); A.C. 3150 Zangrillo (Forza Italia).
In quest’attività riassuntiva ometteremo di tediare il lettore con la segnalazione delle ovvietà che pure sono contenute in taluni di questi progetti di legge. Non ci soffermeremo, quindi, sulla norma che ci avverte che i limiti orari della giornata lavorativa agile devono corrispondere a 40 ore o su quella che ci offre una definizione del telelavoro già ampiamente acquisita dal diritto, né su quella che “inventa” la possibilità di essere “assunti in lavoro agile” (circostanza ovviamente pacifica). Del pari, non ci soffermeremo sulla proposta di giuridificazione totale delle scelte organizzative che le parti (datore di lavoro e lavoratore) devono restare libere di adottare e di adattare alle specifiche necessità aziendali e individuali e che qualcuno, invece, vorrebbe cristallizzare niente meno che in un “Testo Unico del lavoro agile”.
Passiamo senz’altro all’analisi di alcune delle principali disposizioni suddividendole in base ai diversi aspetti trattati.
Orario di lavoro
Il pdl A.C. 2685 nel prevedere che il datore di lavoro concordi con il lavoratore le mansioni da svolgere e gli obiettivi da conseguire, estende l’ambito dell’accordo alla fissazione preventiva di “un monte ore da dedicare a ciascuna attività” e ciò sulla base di “programmi trimestrali, mensili e settimanali definiti in sede di accordo tra le parti”.
In disparte il rilievo che il riferimento alla mansione è ormai superato nei contesti organizzativi più avanzati e che semmai la prestazione lavorativa (soprattutto se “smart”) è sempre più da intendersi come un “ruolo aperto” (à la Federico Butera) che viene agìto sulla base di crescenti dosi di discrezionalità operativa, è agevole comprendere come una tale previsione sia, a dir poco, incomprensibile nel quadro di attività basate sulla logica del lavoro “per fasi, cicli ed obiettivi” con esecuzione “senza precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro” (art 18, c.1, L. 81/2017) e che sono caratterizzate da un ampio grado di discrezionalità operativa del lavoratore.
La fissazione preventiva delle quantità orarie da dedicare a ciascuna attività, nonché la loro pianificazione temporale è con tutta evidenza la negazione di una delle qualità salienti del lavoro “smart”.
Il medesimo pdl è del tutto avulso dalle logiche organizzative aziendali anche quando intende imporre un’alternanza tra “lavoro agile” e lavoro in presenza, prevedendo che quest’ultimo abbia una durata non inferiore al 40 per cento del monte ore mensile. Ancora una volta, saranno le necessità del lavoro e in ciascuna azienda che definiranno, nel loro divenire, quanta parte del lavoro si dovrà o si potrà svolgere in presenza e quanta altrove, premesso che il lavoratore agile – ben pochi lo ricordano o lo sanno – è tale anche quando lavora “in presenza” perché il contenuto dell’accordo individuale che ha trasformato la sua prestazione in modalità “agile” spiega i suoi effetti anche quando quello debba svolgere parte del suo lavoro rientrando in azienda nella quale continuerà a svolgere la sua attività in assenza di quei precisi vincoli di orario che caratterizzano il “lavoro agile” (per dirne una: non “timbra” il cartellino).
Diritto di precedenza
Varie sono le ipotesi previste dai pdl (ad esempio in A.C. 2417, A.C. 2667, A.C. 2908 e A.C. 3150) di prioritizzazione di alcuni lavoratori sulla base di necessità collegabili a condizioni di criticità personale e/o familiare. Si tratta di una funzione welfaristica, quando non direttamente assistenzialistica, che non ha nulla a che fare con l’autentico “lavoro agile” i cui presupposti organizzativi non attengono a temi come il caregiving, la maternità o lo stato di disabilità dei familiari del lavoratore. Questi aspetti sono disciplinati (o devono esserlo maggiormente e con maggiore efficacia) da altre norme espressamente votate a tutelare i lavoratori che debbano fronteggiare tali condizioni. Lo smart working autentico non nasce come istituto la cui finalità è la conciliazione vita-lavoro (è una delle non felici indicazioni della L. 81/2017), ma è una manifestazione della riprogettazione del lavoro e dell’impresa che ridisegna, sul piano socio-tecnico, il lavoro e i suoi luoghi in vista ed in conseguenza delle “grandi trasformazioni” che l’incessante evoluzione tecnologiche porta con sé. La conciliazione vita-lavoro è semmai un outcome dello smart working.
Ciò vale anche con riguardo al “lavoro agile” inteso come “accomodamento ragionevole” (“Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone con disabilità”, 2007). Attenzione: il ricorso al lavoro che “remotizza” questo tipo di lavoratore è la strada migliore per includerlo nei team aziendali, migliorarne le dotazioni professionali e quindi per realizzare efficaci politiche di Diversity Management? Ne dubitiamo, considerando che problemi di sfaldamento del senso di appartenenza e di engagement si registrano anche per i lavoratori non disabili quando questi siano sottoposti a dosi troppo massicce di lavoro in remoto.
Merita poi di essere citata la proposta contenuta in A.C. 2417 secondo la quale per la determinazione dell’ordine di priorità dei lavoratori che hanno i “titoli” assistenzialistici derivanti dalle criticità che il pdl stesso elenca (tra i quali lo svolgimento di attività di supporto a familiari disabili, l’esistenza di figli minori di 14 anni o affetti da disagi comportamentali), dopo avere operato un’ulteriore selezione sulla base della distanza tra domicilio del lavoratore interessato e sede del luogo di lavoro, si dovrà riconoscere la priorità, sia pure in subordine, “ai lavoratori dipendenti facenti parte delle giunte comunali, provinciali, metropolitane”. In caso di contestazioni (più che probabili trattandosi di una priorità che si sostanzia in una disposizione palesemente priva di un interesse generale e comunque incongrua) la decisione, propone il pdl in commento, sarà rimessa alla Consigliera di parità competente per territorio (con il che, ci sembra, si addossa a questo organo una competenza non del tutto allineata alle sue funzioni istituzionali).
A questo stesso organo è anche attribuito anche il compito di fornire consulenza o di partecipare direttamente alla stipulazione dell’accordo individuale laddove questo riguardi una lavoratrice che si trovi nel triennio successivo alla fine del periodo di congedo di maternità.
Potere direttivo e di controllo
I pdl A.C. 2417, A.C. 2667 e A.C. 2908 affidano ad appositi accordi con le rappresentanze sindacali (e non all’accordo tra le parti come attualmente previsto) la disciplina delle modalità e dei limiti di esercizio del potere direttivo e di controllo del datore di lavoro rispetto alla prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali (conseguentemente verrebbe abrogato l’art. 21, L. 81/2017).
Si tratta di una previsione che va in netta controtendenza rispetto alla lettura dell’accordo individuale come previsto dalla disciplina vigente ed inteso come spatium deliberandi utile alle parti proprio per adattare (e forse anche contenere) il potere di controllo datoriale.
Tutto ciò sulla premessa che la coprogettazione del lavoro presupposta dall’autentico “lavoro agile” (a sua volta frutto di una complessa riprogettazione delle dinamiche organizzative d’impresa affinché il “lavoro agile” possa essere coordinato con il complessivo contesto aziendale) comporta l’assunzione di responsabilità e la generazione di relazioni massimamente fiduciarie che solo le parti “naturali” del rapporto “smart” possono alimentare, concordare e far fiorire lasciando che il lavoro, svolto per “fasi, cicli ed obiettivi”, non sia burocratizzato da contrattazioni che proprio per il fatto di non essere individuali finirebbero per essere la fonte, anch’esse, di una burocratizzazione e di una giuridificazione (ne ha ampiamente segnalato per tempo il rischio Pietro Ichino) incapace, per definizione, di rendere “agile” il lavoro. Un lavoro che si avvia a diventare “ibrido” e che semmai necessita di corrispondenti contratti che tengano conto di questa sua natura, come la parte più avveduta delle stesse OO.SS. ormai riconosce.
Del resto lo spatium deliberandi aperto dall’accordo individuale non solo ridefinisce il lavoro nella sua triade tradizionale (luogo-tempo-azione), ma può “scolorire il potere direttivo” (come scrive Carla Spinelli in “Tecnologie digitali e lavoro agile”) consentendo di modulare i poteri datoriali di direzione e controllo verso un loro bilanciamento nel quadro del componimento dei reciproci interessi delle parti che sono sottesi all’attivazione del “lavoro agile” (due esempi: produttività Vs. auto-organizzazione e conciliazione vita-lavoro; paradigma «previsione e controllo» Vs. quello dell’«autonomia condivisa», richiamato dalle metodologie della Agile Organisation).
Disconnessione
Su questo tema ammettiamo di avere qualche difficoltà a riconoscere la sussistenza di diritti soggettivi. Un “diritto alla disconnessione” nell’epoca in cui la vita è costantemente connessa (l’onlife di Luciano Floridi) rivendica qualcosa che, nel quadro dell’organizzazione “agile” del lavoro, stride ad occhio. Le nostre difficoltà, poi, crescono maggiormente pensando ai luoghi di lavoro sempre più trasformati in CPS (Cyber-Physical System) o nei quali si attivano progetti di ridesign degli spazi e dei processi in vista di una loro fruizione sempre più phygital.
Le difficoltà poi crescono ulteriormente considerando che il lavoro reso senza precisi vincoli di orario mal si concilia con fasce orarie e assenza di connessioni (come avviene in quelle aziende che al diritto di disconnessione sostituiscono un obbligo attraverso lo spegnimento temporaneo dei server).
In un mondo globalizzato, nel quale il lavoro spesso si confronta con colleghi o con clienti che vivono regolati da fusi orari diversi, immaginare di “spegnere” la propria dotazione informatica equivale ad un’assurdità. Non significa lavorare “h24”, né dover rispondere nel cuore della notte ad una e-mail, ma significa che se lo smart worker si è organizzato in maniera tale da essere operativo in un orario diverso da quello canonico, egli sarà libero di farlo (potendo corrispondentemente recuperare spazi di riposo in un momento non meno diverso da quello del quale dispongono i lavoratori “in presenza” ossia non “agili”).
Certo, c’è il rischio psico-sociale di un lavoro che debordi ed invada la sfera privata fino a provocare burnout e work-life imbalance, ma a nostro avviso questa del lavoro agile è un’area nella quale la necessità di tutelare il lavoratore da se stesso corre il parallelo rischio di scivolare in un paternalismo che appare fuori tempo massimo.
Memori dei ritmi e dei temi fordisti ecco allora che per i pdl A.C. 2417, A.C. 2667, A.C. 2908 quando la prestazione lavorativa è svolta all’interno dei locali aziendali, il diritto alla disconnessione può essere esercitato durante la pausa (immaginiamo del pranzo e concordiamo: galateo vuole che a tavola non si guardi lo smartphone e non si risponda alle e-mail), mentre quando la prestazione lavorativa è svolta fuori dai locali aziendali, le modalità per rendere compatibile l’esercizio del diritto alla disconnessione con l’obbligo di diligenza spettante al lavoratore sono definite mediante accordo scritto, con il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali. Su questo vale quanto abbiamo scritto poc’anzi con l’aggiunta, qui, che il diritto alla disconnessione dovrebbe essere adattato, oltre che alle concrete modalità esecutive concordate, anche tenendo conto delle differenti posizioni professionali del singolo lavoratore (un quadro o soprattutto un dirigente è pressoché inimmaginabile che “stacchi” i collegamenti, il che non significa che non possa estraniarsi temporaneamente dal lavoro mentre sfrutta le pause che nel suo programma di attività si sarà dato rispetto al timing del conseguimento degli obiettivi previsti).
Agevolazioni fiscali e contributive
Concludiamo questo excursus ed entriamo ora nel campo delle proposte sulle quali è forse superfluo aggiungere troppi commenti potendo senz’altro il singolo lettore trovare da sé le parole più idonee per esprimerli.
I pdl A.C. 2282 e A.C. 2817 intenderebbero introdurre, per i rapporti di lavoro eseguiti in modalità agile, una riduzione dell’aliquota di contribuzione al Fondo pensioni lavoratori dipendenti in misura pari al 4%. I pdl A.C. 2667 e A.C. 2908 vorrebbero, invece, riconoscere ai datori di lavoro privati che applicano ai lavoratori con contratto di lavoro subordinato modalità di “lavoro agile” una riduzione del 30% dei contributi previdenziali dovuti e per un periodo di tre anni.
Invece di spingere sullo sviluppo e sulla diffusione della digitalizzazione del Paese e semmai di riprendere i programmi di “Transizione 4.0″ (aggiornabili oggi con alcune delle missioni del PNRR) armonizzandoli con le opportunità offerte dalla diffusione del “lavoro agile”, s’intende affidare il progresso dello smart working allo specchietto per le allodole di uno sconto contributivo, sterile ed avulso da quella necessità di formazione e di cultura sui nuovi approcci organizzativi e manageriali con i quali soli è possibile immaginare un reale, sia pur complesso e lento, cambio di paradigma del lavoro.
Ancor di più si spinge l’A.C. 2282 il quale mira ad escludere i redditi da lavoro dipendente percepiti da chi svolge il lavoro in modalità agile dalla formazione del reddito complessivo ai fini IRPEF e delle addizionali regionali e comunali, rispettivamente, per un periodo di 36 mesi in caso di soggetti neoassunti e di 48 mesi in caso di trasformazione in modalità agile dello svolgimento della prestazione lavorativa. Non c’è da aggiungere molto atteso che si tratta di una previsione discriminatoria nei riguardi dei lavoratori che non rendono o che non possono rendere la propria prestazione in modalità agile.
Francobolli
Infine, chiudiamo con una nota che giornalisticamente potremmo definire “di colore”: dovremo all’A.C. 2417, ove mai passasse la proposta, l’istituzione della “Settimana nazionale del lavoro agile” per il che ci sia consentito di aggiungere il modesto suggerimento della contestuale emissione di un francobollo celebrativo.
di Pasquale Dui e Giovanni Scansani