Ogni anno, a fine maggio, un profluvio di dati, analisi e raccomandazioni, relativi alle condizioni e alle prospettive del nostro apparato produttivo, invade le redazioni economiche dei media italiani. L’ultimo giorno lavorativo del mese, infatti, si tiene a Roma l’assemblea dei soci della Banca d’Italia. In tale occasione, seguendo una tradizione formatasi quando a via Nazionale sedeva Guido Carli, il governatore della stessa Banca svolge le Considerazioni finali con cui presenta la sua Relazione annuale. Da qualche anno a questa parte, questo atteso appuntamento è di poco preceduto dall’assemblea annuale di Confindustria, in calendario per l’ultimo giovedì del mese. Assemblea durante la cui parte pubblica il presidente dell’associazione di viale dell’Astronomia tiene una sua Relazione. Quest’anno, nel giro di una decina di giorni, altri soggetti – da Federmeccanica al Censis – hanno poi cercato l’attenzione del pubblico, sfornando altri dati e altre analisi.
Il vantaggio di questa affollata fine di maggio, prolungatasi nel nostro caso fino ai primi di giugno, è che in un tempo circoscritto i maggiori centri di studi economici dicono la loro sulle sorti produttive del nostro paese. Per gli addetti ai lavori, è quindi più agevole confrontare dati e ricette. Lo svantaggio è che la notizia di oggi cancella quella di ieri che, a sua volta, ha cancellato quella di ieri l’altro. L’opinione pubblica si trova quindi di fronte a un accavallarsi di informazioni, in cui l’analisi letta venerdì rischia di sovrapporsi malamente a quella orecchiata giovedì. Col risultato di non memorizzare né l’una, né l’altra.
Dalla crisi alla recessione
Cerchiamo dunque di vedere se, partendo da questa massa di dati, sia possibile fare un punto informativo sullo stato dell’industria italiana dopo sei anni di crisi, e su eventuali direttrici di ripresa. Cominciando da una domanda: sei anni di crisi? No, di più. Perché tutti ricordano il settembre del 2008 come il momento in cui l’immagine degli impiegati appena licenziati, che escono con gli scatoloni dagli uffici newyorkesi di Lehman Brothers, segna l’esplosione della crisi economica globale. Crisi che, peraltro, serpeggiava negli Stati Uniti già dal 2007.
Ma, parlando di industria italiana, bisogna andare più indietro nel tempo, e cioè agli inizi del millennio, ovvero al momento in cui comincia il dibattito sul nostro incipiente declino industriale. Utilmente, dunque, il Centro studi Confindustria, in una ricerca resa nota mercoledì 4 giugno, abbraccia il periodo 2001-2013. Il risultato è impressionante. Confrontando i censimenti del 2001 e del 2011 si registra – riporta Il Sole 24 Ore del 5 giugno – una contrazione di quasi 105mila unità locali attive (-18,4%) e di 930mila occupati (-19,4%). Se poi si aggiunge a questo decennio il biennio 2012-2013, si constata la perdita di altri 160mila occupati e 20mila fabbriche. In totale, nei 12 anni (2001-2013), l’industria italiana ha dunque perso più di un milione di addetti (1.090.000) e 125mila unità produttive. Una Caporetto.
Se questo è ciò che è accaduto nell’arco di 12 anni, va anche ricordato che la dinamica della crisi si è molto accelerata a partire dal 2008. Infatti, negli anni che vanno dal 2001 al 2007, le unità produttive locali decrescono, nel settore manifatturiero, del 3,1% e gli addetti del 6,1%. Invece, tra il 2008 e il 2011 le unità locali perdono, in percentuale, ben 8,6 punti, e gli addetti addirittura 10,9.
Questo quadro drammatico suscita apprensione, ma non stupore, nel lettore che già conosca l’edizione n. 130 dell’indagine trimestrale su La congiuntura dell’industria metalmeccanica, presentata da Federmeccanica il 28 maggio. In tale occasione, infatti, l’associazione delle imprese metalmeccaniche ricorda che nel macrosettore, che costituisce il cuore della nostra industria manifatturiera, si è perso, rispetto alla “fase pre-recessiva”, non solo il 30% della produzione, ma, cosa forse peggiore, il 25% della capacità produttiva installata. Qui la perdita occupazionale, confrontando ancora il 2013 col 2007, è stata di “circa 230mila unità”. (Senza considerare, ovviamente, le migliaia di lavoratori posti, per periodi più o meno lunghi, in una delle varie forme di cassa integrazione: ordinaria, straordinaria o in deroga.)
Se così forti sono state le perdite assolute, dovevano essere di conseguenza rilevanti anche gli arretramenti relativi. Su questo ha lavorato ancora il Centro studi Confindustria, secondo cui la produzione manifatturiera italiana, tra il 2000 e il 2013, è scesa del 25,5% (indice 2000 = 100, prezzi costanti), mentre la produzione manifatturiera mondiale è cresciuta del 36,1%. Ne risulta che, ancora fra il 2000 e il 2013, l’industria italiana è scesa di tre posti nella classifica internazionale. Facendo riferimento alla quota percentuale della produzione manifatturiera mondiale, il nostro paese, con un bel 4,2%, nel 2000 era quinto dietro Stati Uniti (24,5%), Giappone (16,0%), Cina (8,6%) e Germania (6,7%). Nel 2013, invece, l’Italia, con un assai più modesto 2,6%, si è piazzata “solo” all’ottavo posto, a pari merito conla Francia e ormai scavalcata da Corea del Sud (3,6%), India (3,0%) e Brasile (2,8%).
“Il lascito della recessione – afferma dunque venerdì 30 maggio il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco – è pesante.” E lo si vede bene non solo confrontando la posizione internazionale occupata oggi dal nostro paese con quella di qualche anno fa, ma anche confrontando i dati economici interni, registrabili attualmente in Italia, con quelli di un non lontano passato. All’inizio del 2014 – osserva con preoccupazione, il 29 maggio, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi -, il “reddito pro capite è ai livelli del 1996, i consumi al 1998, gli investimenti al1994”, mentre “la produzione industriale è tornata al livello del1986” (pag. 6). Paragonando l’ultimo trimestre 2013 alla fine del 2007, incalza il giorno dopo Visco, si può vedere che i consumi delle famiglie sono “ancora inferiori di circa l’8%”, mentre gli investimenti sono inferiori addirittura del 26% (pag. 12).
Prospettive e speranze
Fin qui i dati sulla recessione che abbiamo alle spalle e che ancorano pesano sul presente. E davanti a noi cosa c’è? Per abbozzare qualche risposta, bisogna passare dalle cifre alle parole. Ed ecco dunque la sintetica analisi dinamica del momento offerta dall’economista Gian Maria Gros-Pietro, intervenuto – nella sua qualità di presidente del Consiglio di gestione di Intesa San Paolo -, all’assemblea di Bankitalia. “Stiamo uscendo da un periodo molto difficile – esordisce Gros-Pietro -. La crisi dura ormai da sei anni, con ripercussioni pesantissime sul potere d’acquisto degli italiani; ha portato il tasso di disoccupazione su livelli mai raggiunti negli ultimi 40 anni.” “Solo dalla fine del 2013 – prosegue l’economista-banchiere – si sono intravisti segnali di ripresa dell’economia reale, tuttora caratterizzati da elementi di fragilità, in tutta Europa, ma soprattutto in Italia. Qui”, infatti, “la domanda interna stenta a dare segni chiari di ripresa; gran parte del recupero dell’attività è ascrivibile alle esportazioni e, in particolare, a quelle delle imprese innovative, in ogni settore.”
Una visione più o meno prudentemente ottimistica sembra, comunque, accomunare gli intervenuti nel dibattito di fine maggio. “Sul finire del 2013 – osserva Visco – i giudizi sulle condizioni per investire sono divenuti più favorevoli, soprattutto da parte delle aziende più grandi (pag. 13).”
Per Federica Guidi, intervenuta quale ministro dello Sviluppo Economico all’assemblea di Confindustria, il momento attuale è “delicato”, ma anche “ricco di opportunità”. Infatti, “nei prossimi anni ci troveremo di fronte a un’imponente crescita della domanda internazionale nei settori di nostra specializzazione”. Una domanda, ipotizza Guidi, che verrà “soprattutto da paesi ormai non più emergenti, ma pienamente emersi, che stanno completando il loro processo di trasformazione da economie di produzione a economie di consumo”. E che sarà quindi soprattutto una domanda di “beni di qualità, del cosiddetto ‘bello e ben fatto’”. Questo, afferma non senza qualche enfasi il ministro, è “il dividendo della globalizzazione che nessun paese più dell’Italia è in grado di ricevere. Da qui al 2030 turisti e consumatori raddoppieranno. Parliamo di circa ottocento milioni di persone affamate di prodotti, cultura e stile di vita italiani”.
Previsioni, o speranze, quelle espresse dal ministro Guidi – che proviene da una famiglia di imprenditori metalmeccanici -, apparse in piena sintonia con alcune delle idee esposte poco prima dal “chimico” Squinzi: “Il processo di sviluppo delle economie emergenti è ormai in corso da un quarto di secolo, e sono queste a trascinare le economie dei paesi più industrializzati. Tra 15 anni la classe a medio reddito arriverà a circa 1,5 miliardi di individui, più di mezzo miliardo sarà nei paesi emergenti. Sono tre Europe, quattro Stati Uniti”.
Questi numeri “mettono quasi i brividi”, confessa Squinzi, e “ci dicono” quanto ampio sia il “potenziale” che, in futuro, potrà essere tradotto in “crescita”. Secondo il presidente di Confindustria, infatti, una “buona parte di questo mondo chiederà di accedere ai simboli e ai consumi del benessere”. Ebbene: “Gusto, qualità, raffinatezza, personalità. C’è un sinonimo di tutto ciò. Un termine che racchiude in sé questi valori: made in Italy”.
Dunque, l’idea per uscire dalla crisi, anzi per tornare allo sviluppo, che accomuna governo e Confindustria, sarebbe quella di affidarci alle virtù intrinseche del made in Italy. Così a dirlo, sembra francamente poco originale. Anche se bisogna ammettere che, a quel che si comprende, Squinzi e Guidi non pensano solo al cibo (bevande comprese) e alla moda, classiche colonne – con l’ausilio del turismo – del made in Italy, ma a un’idea più ampia, anche se ancora un po’ vaga, estendibile a tutta la produzione italiana. Qualcosa che, da un lato, sconfina nel lusso (e questo non dovrebbe dispiacere a Marchionne), mentre da un secondo lato potrebbe evocare l’obamian-marchionniano Made in Detroit; e tuttavia non approda ancora alla chiarezza e alla pervasività di uno slogan tipo “Qualità svizzera”, cui si impronta tutta l’attività produttiva dei nostri vicini elvetici. Tutta, e quindi non solo cioccolata, formaggi e orologi, ma, appunto, industria metalmeccanica e industria chimica (farmaceutica compresa).
Problemi e soluzioni
In attesa che questo ritorno in campo di un Made in Italy rivisitato e potenziato si trasformi da un’idea buttata lì in una consapevole strategia di politica industriale, ci sono due grossi problemi da affrontare a partire da subito. La perdurante depressione della domanda interna e la storica sottocapitalizzazione delle nostre imprese.
Sul primo punto, a Federmeccanica va sicuramente il merito di aver segnalato ripetutamente, in occasione delle presentazioni delle sue indagini trimestrali, che ciò che ha tenuto in piedi il settore metalmeccanico in questi anni di crisi è stato il persistente vigore delle esportazioni. Vigore sostenuto, in particolare, dalla capacità italiana di produrre beni strumentali, ovvero impianti e macchinari per l’industria. Laddove il crollo della domanda interna ha innanzitutto falcidiato la produzione di beni di consumo durevoli (auto, elettrodomestici, ecc.), finendo poi per demotivare gli investimenti connessi a questi comparti.
Adesso questa consapevolezza sembra più ampiamente diffusa ed ha ricevuto l’autorevole avvallo del governatore che, come ha sostenuto più di un commentatore, quest’anno ha compiuto una “svolta keynesiana”, parlando ripetutamente, nelle sue Considerazioni finali, della necessità di un aumento della domanda interna. E spingendosi sino ad affermare che “alla crescita della produttività, troppo a lungo stagnante, deve accompagnarsi quella della domanda, quindi dei redditi delle famiglie, da sostenere con nuove opportunità di lavoro”. E che quindi “servono investimenti privati e pubblici, nazionali ed europei” (pag. 22).
Sul secondo punto, Ignazio Visco ha parole chiarissime. Questa è la situazione: “L’indebitamento elevato e la dipendenza dal credito bancario sono segnali di vulnerabilità finanziaria per le imprese italiane. Con quasi 1.300 miliardi di debiti finanziari e 1.600 di patrimonio netto, il complesso delle aziende italiane ha una leva del 44%”, mentre “il credito bancario rappresenta il 64% dei debiti complessivi”. Invece, per l’area dell’euro queste grandezze sono decisamente più basse, pari in media al 39 e al 46 per cento”.
Orbene, “una dotazione di capitale più elevata agevolerebbe l’accesso delle imprese al credito” e, “insieme con una maggiore diversificazione delle fonti di finanziamento esterno, le renderebbe più robuste”. Ne segue che “una leva finanziaria in linea con la media europea richiederebbe un aumento del patrimonio netto di circa 200 miliardi e una pari riduzione dei debiti”. Secondo Visco, questo è “un obiettivo ambizioso, ma alla portata delle nostre imprese in un orizzonte di medio termine”.
Ed eccoci a quella che è una delle affermazioni più forti del governatore, anche se fatta con il consueto understatement: “Riforme strutturali volte a rilanciare la crescita agevolerebbero il reperimento di capitale di rischio e incoraggerebbero gli imprenditori a impegnare risorse proprie, mostrando per primi fiducia nelle prospettive delle loro aziende”. A buon intenditor, poche parole.
Fernando Liuzzi