Dalle cronache delle manifestazioni che – a partire da domenica scorsa – si sono svolte in varie città italiane, da Napoli a Torino, sono venute, per il movimento sindacale, così come, più in generale, per il nostro Paese, due notizie: una buona e un’altra di più difficile decifrazione.
Cominciamo da quella buona. Nella primavera scorsa, quando, in pieno lockdown, molti cominciavano a pensare a cosa sarebbe potuto accadere nei mesi successivi, diversi osservatori della scena politica nazionale espressero il timore che, al momento della ripresa autunnale, si sarebbe assistito a un’ondata di licenziamenti e quindi, oltre che al manifestarsi di un grave problema economico e sociale, anche all’insorgere di tensioni che, da una crisi della tenuta del tessuto sociale, avrebbero potuto tradursi in pericoli per l’ordine pubblico. L’immagine che veniva così evocata era quella di ipotetici cortei di operai disoccupati e disperati.
Ebbene, siamo ormai a fine ottobre e bisogna ammettere che, fortunatamente, questi rischi – sia quelli dei licenziamenti di massa, sia quelli del successivo scontro sociale – sono stati, almeno sin qui, evitati. E se ciò è accaduto, bisogna darne il merito, innanzitutto, ai sindacati confederali, ovvero a quelle grandi confederazioni che si chiamano Cgil, Cisl e Uil.
Questi sindacati, infatti, sono riusciti, da un lato, a tenere unito il composito mondo del lavoro dipendente, e, dall’altro, a rappresentarne gli interessi nel confronto con l’Esecutivo. Quest’ultimo, peraltro, si è mostrato abbastanza sensibile alle istanze del mondo del lavoro organizzato, seguendo la linea che si era già vista in occasione della trattativa sul cosiddetto cuneo fiscale. Quella trattativa che, nello scorso gennaio, è approdata a un accordo, destinato a entrare in vigore in luglio, in base al quale, semplificando molto, i famosi 80 euro di Renzi, da una parte, sono diventati 100, mentre, dall’altra, sono stati estesi, in misura varia, anche a fasce di lavoratori dipendenti che prima ne erano esclusi.
Di fronte alla situazione drammatica determinata dall’esplodere della pandemia da Covid-19, e dal conseguente lockdown, il Governo Conte 2 ha dunque attuato una serie di provvedimenti che vanno dall’erogazione di una nuova Cassa integrazione ad hoc, al blocco temporaneo dei licenziamenti. Con queste misure, il lavoro dipendente dal settore privato ha ottenuto, in sostanza, protezioni simili a quelle di cui gode, normalmente, il pubblico impiego.
Come è noto, il blocco dei licenziamenti, nel suo protrarsi, è stato avversato dalla Confindustria e criticato da commentatori di orientamenti anche diversi. Ora è ben vero che, in un regime economico capitalistico, non si può pretendere che il welfare stia a carico delle singole imprese. Anzi, chi si preoccupa di difendere l’occupazione deve sapere che l’ampiezza e la solidità di quest’ultima dipendono, in larga misura, dallo stato di salute delle imprese stesse. Così come deve sapere che, nelle condizioni attuali, non avrebbe alcun senso riesumare un vecchio strumento del sindacalismo bracciantile, come l’imponibile di manodopera, per applicarlo a imprese esposte alla competizione globale.
D’altra parte, i difensori delle misure governative sopra richiamate hanno sottolineato che si tratta di misure straordinarie, derivanti dall’emergenza pandemica, e che hanno quindi una natura strettamente provvisoria.
Sia come sia, va riconosciuto che l’integrazione salariale fornita dalla cosiddetta Cassa Covid e il divieto – via, via prorogato – dei licenziamenti hanno salvaguardato, fin qui, sia il posto di lavoro che parte del reddito dei dipendenti del settore privato, almeno per ciò che riguarda l’industria manifatturiera e i servizi ad essa legati.
Le manifestazioni di questi giorni, e qui veniamo alla notizia più complessa, hanno però anche messo in luce due fenomeni il primo dei quali, contingente, è in sé negativo, mentre il secondo, in corso di sviluppo già da tempo, non è stato forse ancora oggetto, in misura sufficiente, di riflessione e di dibattito nel movimento sindacale.
Cominciamo dal primo fenomeno. E’ ormai evidente che dall’inizio della pandemia, e ancor più con l’ultimo Dpcm, le cose stanno andando male per diverse figure sociali che sono collocate, per così dire, sopra o sotto ai lavoratori sindacalizzati dell’industria. Ovvero, per ciò che riguarda il sopra, professionisti e partite Iva, ma anche medi, piccoli e piccolissimi imprenditori attivi nel terziario privato; e, per ciò che riguarda il sotto, lavoratori a vario titolo atipici, autonomi, precari o in nero.
Questo fenomeno – che di per sé costituisce un aspetto, tutt’altro che secondario, delle conseguenze economiche e sociali delle politiche di lockdown assunte per contrastare l’espansione della pandemia – è poi, a sua volta, parte di un più ampio processo storico. Mentre Marx aveva ipotizzato che la società si polarizzasse, appunto, attorno a due poli antagonisti, capitale e lavoro (noi oggi diremmo: grandi imprese e lavoratori dipendenti); e mentre già Bernstein aveva intuito che tale schema sarebbe stato messo in discussione dal crescere delle medie imprese e dei ceti medi; le società contemporanee hanno accentuato la loro ulteriore complessità. In particolare, nel mondo sempre più vasto e diversificato dei servizi privati, esiste una massa crescente di figure professionali variamente attive nei campi della cultura, dello spettacolo, dell’intrattenimento, della ristorazione, del turismo, dello sport, della cura della persona, ma anche dell’informazione, della comunicazione digitale, degli eventi di varia natura, e chi più ne ha più ne metta, che, in termini di reddito, possono collocarsi, a seconda delle varie fasi della loro carriera professionale, così come a seconda di diverse annate e di diversi periodi, sopra o sotto alla media del lavoro dipendente, pubblico o privato. Figure, ancora, che sono più o meno consapevoli della relativa precarietà della propria collocazione sociale anche a seconda dei propri mutevoli livelli di reddito.
Fatto sta che i lavoratori dipendenti del settore privato, così come quelli del pubblico impiego, sono percepiti dagli altri, e vengono descritti dalla pubblicistica corrente, come i “garantiti” mentre gli altri, quelli cui abbiamo qui sopra accennato, vengono definiti come i “non garantiti”.
Ora va detto che i cosiddetti “garantiti” non sono eredi di un privilegio feudale. Al contrario, sono spesso i figli e i nipoti di quei lavoratori e di quelle lavoratrici che prima con le lotte successive alla nascita della Repubblica “fondata sul lavoro”, e poi con quelle che si collocano fra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, hanno conquistato quei diritti che hanno consolidato la loro posizione sia nei luoghi di lavoro che nella società. Insomma, contratti, rafforzati da leggi come lo Statuto dei lavoratori, più welfare. Salari, orari, pensioni, sanità, e scuola per i loro figli.
Grazie alle lotte condotte dai padri e dai nonni degli attuali garantiti, anche i “non garantiti” hanno, peraltro, sanità e scuola per i loro figli. Ma, non avendo contratti, non hanno salari od orari certi, né pensioni. E, nel caso di crisi settoriali più o meno prolungate, non sono protetti da misure di integrazione salariale.
In termini di reddito, sopra ai lavoratori dipendenti “garantiti” ci sono poi migliaia di piccoli e piccolissimi imprenditori attivi nel campo del commercio e di quei servizi privati che abbiamo sopra richiamato: negozianti, ristoratori, gestori di mini imprese di servizi per eventi di varia natura, dai concerti alle fiere, proprietari di palestre e piscine, e via elencando. Figure che possono ottenere anche degli ottimi incassi mensili, ma la cui posizione socio-economica resta caratterizzata da una certa precarietà.
Ebbene, mentre durante il primo lockdown generalizzato il dramma inatteso della pandemia è stato affrontato un po’ da tutti nella prospettiva ottimistica dello slogan “Andrà tutto bene” – slogan che sottointendeva che prima o poi si sarebbe usciti dalle strettoie del confinamento – e, alla peggio, con l’implicito conforto del detto consolatorio che recita “Mal comune, mezzo gaudio”; adesso il solo annuncio del secondo mini lockdown segmentato, che ha lasciato aperte fabbriche e supermercati, ma ha chiuso tutte le strutture della ristorazione e dell’intrattenimento serali, nonché fiere e strutture sportive come i campetti di calcio, ha avuto l’effetto dell’accensione di una miccia capace di far esplodere un disagio sociale diffuso quanto diversificato e, comunque, già accumulatosi nei mesi precedenti. Si è così assistito a quei movimenti di piazza, imprevisti quanto a protagonisti e a obiettivi di lotta, che hanno catalizzato l’attenzione pubblica in questi giorni.
A questo proposito, va detto subito che è del tutto verosimile ciò che è stato riferito in varie e successive dichiarazioni dal ministro degli Interni, Lamorgese, secondo cui all’origine delle violenze di piazza che hanno avuto a proprio teatro prima il centro di Napoli, e poi quelli di Roma e di Torino, c’è l’azione preordinata di una congerie di facinorosi che ha visto mischiarsi squadristi di estrema destra con militanti dei centri sociali, ultras delle curve calcistiche, piccoli spacciatori di periferia, figli di immigrati compresi, e uomini di mano della criminalità organizzata.
Resta però il fatto che questa miccia ha preso fuoco adesso, e non durante il primo lockdown. Resta il fatto che che questa congerie di facinorosi, un po’ spontanea e un po’ organizzata, si è esibita adesso, e non prima, nelle piazze centrali delle nostre città. E, verosimilmente, lo ha fatto adesso perché è adesso che ha avvertito la possibilità di presentarsi come l’avanguardia ribelle di un diffuso disagio sociale in cui si mischiavano le ansie dei ristoratori e quelle dei montatori dei palchi da concerto, le ansie degli sguatteri e quelle degli organizzatori di eventi, le delusioni dei proprietari di palestre e piscine, o di gestori di cinema e teatri, e quelle dei venditori di bevande alcoliche destinate ad essere consumate sui marciapiedi antistanti ai loro spacci da piccole folle di studenti fuori sede, giovani impiegati e aspiranti professionisti.
Ed è questa, dopotutto, la notizia che, in prospettiva, dovrebbe diventare oggetto di riflessione per i sindacati. Nel passaggio dall’assetto produttivo prevalentemente agricolo a quello prevalentemente industriale, la fabbrica ha costituito, storicamente, la base materiale su cui il lavoro dipendente – organizzato prima dall’impresa, a fini produttivi, e poi dai sindacati, come soggetto della rappresentanza sociale – ha costruito il proprio ubi consistam, il proprio profilo e, assieme, il proprio potere.
Invece, nel successivo passaggio dalla prevalenza dell’industria manifatturiera alla diffusione del terziario privato, il lavoro si è sfilacciato, si è disperso, si è reso più autonomo anche se, spesso, solo illusoriamente; si è infine – socialmente – indebolito.
Ed è proprio questo ciò che è emerso alla visibilità dei telegiornali della sera, con le manifestazioni di questi giorni. Non cortei sindacali, con tanto di manifesti, bandiere, fischietti, e adeguati servizi d’ordine. Ma un altalenarsi di iniziative creative, come il corteo di ballerini che esibivano le proprie scarpette, o le tovaglie stese per terra dai ristoratori in diverse città, tra cui Roma nella centralissima piazza del Pantheon, e di esplosioni di guerriglia urbana, con tanto di petardi e fumogeni, come avvenuto, la sera prima, sempre a Roma, fra piazza del Popolo e piazza Risorgimento, in una manifestazione anonima cui hanno partecipato, a quanto pare, diversi militanti di Forza Nuova. Un alternarsi di iniziative in cui le frange violente hanno approfittato della protesta sociale per tentare di impadronirsene o, quanto meno, di usarla ai propri scopi propagandistici.
Resta il fatto che la protesta sociale c’era, e che era nata per esprimere un disagio proveniente da settori sociali diversi da quello del lavoro dipendente organizzato. Come si è detto, piccoli e medi imprenditori rappresentati dalle organizzazioni del terziario privato, ma anche lavoratori atipici e non rappresentati dello stesso terziario. Se non uniti, almeno, anche se solo fino a un certo punto, affiancati nella lotta.
Ovviamente, non è che queste cose i sindacati non le sappiano. Le sanno e, senza pretendere che intendano dedicarsi alla rappresentanza dei piccoli imprenditori del terziario, va detto che hanno fin qui abbozzato due ipotesi di percorso per tentare di organizzare le figure del lavoro definito, anni fa, atipico.
Da un lato, c’è stata la via organizzativa, quella perseguita già dalla fine degli anni 90, fondando nuovi sindacati di categoria come il Nidil della Cgil. Un sindacato intitolato, appunto, alle “nuove identità di lavoro”. Dall’altro lato, c’è stata la via contrattuale, quella perseguita, ad esempio, tentando di ricomprendere entro figure già definite dal contratto dei lavoratori dei trasporti nuove figure come quelle dei riders, i ciclo-fattorini che consegnano cibo e bevande a domicilio.
Ma va detto anche che nessuna di queste due vie, fin qui, è parsa, non dico risolutiva, ma anche solo promettente. Martedì 27 ottobre, i tre sindacati confederali che si occupano dei lavoratori atipici, e cioè Felsa-Cisl, Nidil-Cgil e Uiltemp-Uil, hanno emesso un comunicato congiunto relativo al cosiddetto decreto “ristori”. Comunicato con cui hanno ricordato al Governo che “spettacolo, turismo, ristorazione, intrattenimento, convegnistica e sport” sono popolati anche da migliaia di “lavoratori somministrati, atipici, autonomi e precari”; lavoratori che “sono stati dimenticati dai precedenti decreti e sono sempre più a rischio reddito”. I tre sindacati hanno espresso quindi “grande preoccupazione” per “il mondo del lavoro meno tutelato, che non può accedere a nessun tipo di ammortizzatore sociale strutturale”, sottolineando che “le misure adottate per affrontare la crisi Covid-19 si sono allontanate sempre più dal proposito iniziale di non lasciare indietro nessuno”. “Speriamo – è scritto infine nel comunicato – che si ponga rimedio al rischio sempre più concreto di un’emergenza sociale.”
Parole sante. Ma, appunto, parole. Ora non è certo nostra intenzione quella di muovere al movimento sindacale confederale l’accusa di non essersi interessato in modo efficace di tutta quella parte del mondo del lavoro che cresce al di fuori dagli schemi del fordismo. I Soloni che, di quando in quando, si levano per ammannire le loro prediche ai sindacati confederali dimenticano che i sindacati non sono Enti pubblici creati per occuparsi del mondo del lavoro. Al contrario, tecnicamente, sono associazioni private formate da lavoratori dipendenti che si uniscono fra loro iscrivendosi alla medesima organizzazione. E’ quindi del tutto ovvio che i sindacati stessi, specie in mezzo a una crisi di natura e proporzioni inedite come quella provocata dalla pandemia da Sars Cov 2, si propongano, innanzitutto, di rappresentare gli interessi dei propri associati e degli altri lavoratori, non iscritti, che si trovino di fronte agli stessi problemi degli iscritti. E ciò apparirà tanto più vero se si pensa che, al momento, i tempi di uscita dalla crisi pandemica si allungano in termini fin qui indefiniti, e che quindi il compito più urgente è quello di ottenere dal Governo che venga procrastinata la durata, ancora non acquisita, di quegli strumenti di cui abbiamo parlato sopra, quali il blocco dei licenziamenti.
E tuttavia, l’ambizione più nobile, e anche quella più avveduta, del movimento sindacale confederale è sempre stata quella di esercitare la rappresentanza sociale di tutto il mondo del lavoro dipendente. E se questo mondo muta e si diversifica, è interesse del sindacato proporsi di rappresentare anche quei lavoratori che non rientrano nei canoni classici del lavoro salariato quale lo abbiamo conosciuto nei campi, nelle officine, negli uffici e, oggi, nelle case private che ospitano il lavoro da remoto.
Per ampliare il respiro della propria iniziativa, pur ripartendo entro i confini stretti di una situazione particolarmente difficile, il movimento sindacale dovrebbe proporsi due obiettivi.
Da una parte, andando oltre alla pur difficile azione volta a procrastinare divieto dei licenziamenti e integrazioni salariali, i sindacati dovrebbero stimolare il Governo a definire una linea di politica economica volta non solo a difendere, nell’immediato, il reddito dei lavoratori, in ampio senso intesi, colpiti dalla somma di pandemia più lockdown, ma anche ad effettuare e stimolare quegli investimenti che siano capaci di creare, nel dopo pandemia, dei posti di lavoro solidi e produttivi.
Dall’altra, muovendosi lungo la linea indicata dal comunicato del 27 ottobre, le tre confederazioni, assieme ai tre sindacati firmatari sopra citati, dovrebbero assumere come compito strategico dell’intero movimento sindacale quello di proporsi di rappresentare non solo tutto il mondo del lavoro dipendente, classico e atipico, ma anche, nei modi possibili, il lavoro autonomo. E ciò già adesso, dentro la pandemia, rispetto agli effetti dei vari lockdown, in modo da essere pronti a proporsi scopi più ambiziosi quando, come tutti speriamo, il mondo uscirà dall’incubo targato Sars Cov 2.
@Fernando_Liuzzi