Cinquanta anni fa, proprio di questo periodo l’autunno caldo dei lavoratori, soprattutto dei settori industriali, stava compiendo il massimo sforzo per tentare di tradurre in realtà richieste contrattuali che andavano oltre il valore di un contratto da rinnovare perché proponevano un cambiamento profondo da apportare nel mondo del lavoro come nella società. Da conquistare insieme ed insieme alle organizzazioni sindacali.
Osservandolo dai nostri giorni è facile sostenere che l’autunno caldo di 50 anni fa abbia avuto in sorte di passare dal sogno unitario all’incubo di tempi difficili. Ma sarebbe un errore considerarlo solo un mito di tempi irrepetibili, così come sarebbe sbagliato ritenerlo l’inizio di tutti i mali da spedire in soffitta senza rimpianti.
Anche perché vorrebbe dire evitare, tentazione presente, di fare i conti con la propria storia, soprattutto nella cultura di sinistra di questo Paese.
Il novembre del 1969 fu un anno cruciale anche per le nostre categorie, in particolare quella dei chimici impegnata in una dura lotta per ottenere il nuovo contratto ed in una famosa vertenza alla Pirelli. Sul rinnovo servirono ben 185 ore di sciopero per piegare la resistenza degli imprenditori il 6-7 dicembre dopo una lunghissima non-stop. Ed i lavoratori del settore chimico e farmaceutico persero in quella lotta, sono calcoli di allora, circa 80 mila lire di salario per ognuno . Fu determinata e forte anche la lotta degli edili che per primi sfilarono in 40 mila alla fine di ottobre per le vie di Roma senza incidenti suscitando la sorpresa di molti in quanto mai dal secondo dopoguerra si erano visti sfilare nella Capitale tanti lavoratori tutti assieme. Almeno prima della manifestazione dei 100 mila metalmeccanici a Piazza del Popolo a fine novembre. E non mancarono all’appello le lavoratrici ed i lavoratori tessili, come pure i braccianti. E naturalmente furono aspre ma combattive le lotte dei lavoratori metalmeccanici che conclusero la durissima trattativa con la Confindustria poco prima di Natale con esito oltremodo positivo (ma già ai primi di dicembre le aziende pubbliche avevano aperto la via).
Insomma si può annotare intanto che si è un po’ perduta nella memoria di quella stagione di lotte e di conquiste una verità incontrovertibile: l’autunno caldo appartiene ad un vastissimo movimento di lavoratori, diversi milioni, che seppero agire unitariamente e riuscirono ad ottenere nei diversi contratti non solo fra l’80 ed il 90% delle rivendicazioni ma anche una sorta di anticipo sui diritti che saranno sanciti dallo Statuto dei diritti dei lavoratori, ad esempio le assemblee in fabbrica con i dirigenti sindacali senza incorrere come avvenne allora in denunce per violazioni della proprietà privata. Ma non va dimenticato anche il valore non solo simbolico della conquista nelle varie categorie dell’industria delle 40 ore nell’arco di vigenza dei contratti. Diventava realtà una delle più antiche rivendicazioni del movimento operaio le cui radici affondavano nei primordi delle lotte sindacali del secolo scorso.
Ma quel periodo ovviamente determinò cambiamenti in tutte le direzioni: produsse il rinnovamento delle classi dirigenti del sindacato ma anche del mondo imprenditoriale; conseguenze vi furono sul piano politico anche se la voglia di restaurazione provocò negli anni successivi, anche con le cosiddette stragi di Stato, il ritorno a formule politiche di centrodestra che sembravano seppellite per sempre.
Ma soprattutto non ci fu nessuna catastrofe economica, come sostenevano gli imprenditori per contrastare i forti aumenti salariali avanzati dalle categorie, vere protagoniste di quel periodo: il tutto si tradusse invece nella ricerca di altre forme di produttività e in nuove soluzioni organizzative nei luoghi di lavoro che resero sostenibili gli aumenti salariali e gli altri costi dei contratti ma al tempo stesso mutarono non poco il volto della produzione.
Certo, non ci fu sbocco politico e la stessa aspirazione verso l’unità ripiegò nella realizzazione della Federazione Unitaria. Ma quel protagonismo sindacale e dei lavoratori, inscindibile nella doppia veste, ebbe echi importanti anche nella società italiana, nel suo costume, nel desiderio di modernizzarsi e di avere riforme civili e sociali all’altezza di una società industriale che si faceva rispettare in Europa e nel mondo.
E si dimostrò che quando lavoratori e dirigenza sindacale sanno trovare pur nella diversità di opinioni, pur nel mezzo di confronti anche aspri, un equilibrio unitario reale si possono ottenere risultati di grande valore, spingendo anche il resto della società a rinnovarsi ed inseguire nuove idee e proposte.
Oggi quel tipo di fabbrica esiste sempre meno, ed alcuni connotati del grande movimento di lavoratrici e lavoratori di allora, moltissimi erano giovani, anche. Eppure riflettere sull’autunno caldo può aiutare ancora a fare il punto sui temi più controversi di questa stagione politica e sociale.
In primo luogo vi è la considerazione che da quei “sogni” si sta rischiando di sprofondare davvero in incubi di non poco conto. Primo fra tutti il clima di intolleranza che esiste nell’attuale società italiana che la mancanza di sicurezza e l’incertezza sul futuro non possono giustificare. Si pensi solo alla disinvoltura con la quale si esibiscono richiami al fascismo ed al nazismo mentre si offendono e si minacciano vittime e testimoni di infamie come l’Olocausto. Basta pensare a quel che ha dovuto subire la senatrice Segre perché ebrea che ha reagito con una nobiltà d’animo e una fierezza che rende ancor più miserabili quegli attacchi. Ma anche non può sfuggire la crescente voglia di ricorso alla violenza che estremizza i disagi sociali ed economici e li rende in tal modo ancor più insolubili.
E sul piano industriale emerge fra le righe di drammatiche vertenze aperte come quello della siderurgia, nuovamente un assurdo e pericoloso atteggiamento che potrebbe spingere questo Paese verso una illogica deindustrializzazione che ci renderebbe ancor più marginali e “poveri” in Europa come negli scenari economici mondiali.
Non abbiamo certo bisogno di deindusrializzazione ma semmai di una vera ed efficace politica industriale.
La risposta non può che essere quella di rilanciare la sfida per restituire al Paese la vera priorità di cui ha bisogno: tornare a crescere, tornare a dare peso ai progetti di sviluppo, tornare a fare del confronto con i corpi intermedi da parte delle Istituzioni anche un pilastro per combattere gli estremismi di tutti i generi, da quelli nostalgici al razzismo.
L’autunno caldo è esemplare in questo senso: la forza del movimento sindacale poggiò su una audace ma sostenibile strategia contrattuale per poi estendersi agli altri problemi della società italiana. Ma trovò interlocutori che si convinsero, sul piano politico prima con Brodolini e Donat Cattin poi, che occorreva assecondare una svolta nel Paese e non demonizzarla. Ed alla fine si trovò a fare i conti con una parte autorevole della imprenditoria che abbandonava, anche per merito di manager pubblici, le retrovie di una impossibile difesa di comportamenti da anni ’50 e la speranza di dividere i lavoratori.
La forza del movimento sindacale è quella di giocare un ruolo proprio quando si avverte la necessità di cambiare le carte in tavola per favorire un avanzamento civile e sociale. Di questi tempi la necessità è quella di fermare prima una deriva che può resuscitare una destra illiberale e pericolosa (alla faccia di coloro che ironizzano sulle distinzioni fra conservazione e sinistra), trascinare verso prospettive allarmanti la nostra economia ed il lavoro, ridurre ancora inevitabilmente i diritti. Ma allora il problema resta sempre lo stesso: animare con proposte, scelte e volontà unitaria il tessuto sociale di un Paese che può rispondere ancora positivamente se gli si offre la possibilità di guardare avanti. Senza egoismi, senza lugubri fantasmi del passato, senza rinunce.
Paolo Pirani