Il torpore dell’anestesia andava calando e l’amaro in bocca lasciato dall’etere si attenuava; suonò il telefono.
“Una strage, Antonio, è stata una strage”! Così, al risveglio da un’operazione di sinusite, seppi della strage della Thyssen; dalla voce di Claudio, il sindacalista che se ne occupava.
Era il 6 dicembre 2007, il mattino successivo al rogo della linea 5; in quegli anni ero il Segretario Generale della Fim Cisl di Torino.
L’impatto della strage sulla città fu devastante; malgrado la sua lunga storia sindacale, malgrado fosse l’avamposto del Giudice Guariniello, in quei giorni Torino venne rappresentata come l’estremo angolo di sfruttamento del mondo.
Molti osservatori riscoprirono l’esistenza degli operai: morti.
I sindacati metalmeccanici e l’amministrazione reagirono con la grande manifestazione dell’11 dicembre; come in una tragedia greca, lavacro di rabbia, lutto e grandi sofferenza, private e collettive.
Una manifestazione non riporta in vita i morti; eppure, quella volta il corteo fu il primo atto di reazione di una comunità ferita e lacerata, che da quella tragedia imparò a mantenere sempre alta la guardia sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori.
Sempre; anche quando un’azienda sta per chiudere. In quel corteo risuonò forte il grido “Giustizia, Giustizia”!
All’indomani della sentenza di Cassazione, che mette la parola fine alla vicenda giudiziaria, da molte parti si è commentato “Giustizia è stata fatta”.
Non è così; non c’è giustizia quando si muore sul lavoro. Nei giorni del rogo, e in tutto il tragico rosario di morti sul lavoro che si sgrana quasi quotidianamente in Italia, il primo commento è “non è giusto”!
Anche quando in Italia ci fosse un solo morto sul lavoro in un anno, ce ne sarebbe uno di troppo. I sindacati metalmeccanici torinesi, nella vicenda giudiziaria, si costituirono parte civile; con i risarcimenti ottenuti, ogni organizzazione avvio iniziative legate alla salute e alla sicurezza sul lavoro.
La Fim Cisl di Torino, ormai da 5 anni, ha istituito borse di studio per premiare lavori di studenti collegati alle tematiche della salute sul lavoro.
La conclusione dell’iter giudiziario, che ha comminato condanne anche ai massimi vertici della Thyssen, consente di dire che “la legge è uguale per tutti”, come afferma Alberto Papuzzi, in un bell’articolo su “La Stampa” del 15 maggio 2016.
Occorre, tuttavia, completare l’opera di riconciliazione con la Comunità del territorio su cui la Thyssen ha operato per molti anni; il tema che si pone ora è quello della responsabilità sociale d’impresa.
La tragedia della Thyssen, anche negli esiti delle vicende giudiziarie, ha evidenziato il cinismo e l’irresponsabilità della conduzione aziendale.
Da quel disastro, tuttavia, può emergere un nuovo modello di fare impresa, attento ai legami e alla responsabilità nei confronti del territorio e della comunità in cui si compie l’attività economica.
La Thyssen promuova e sostenga a Torino un master per la formazione di quadri capaci di un nuovo approccio ai temi della salute, della sicurezza dei luoghi di lavoro e dell’ambiente; lo faccia in collaborazione con l’ILO, l’organismo dell’ONU che si occupa delle tematiche del lavoro e che a Torino ha la sede del suo training center.
Lo faccia a Torino e da Torino, per le tante situazioni a rischio di incidente e nocitività presenti ancora in molti paesi del mondo.
Non un nuovo, ennesimo risarcimento; un atto di riconciliazione, un nuovo inizio che parli della possibilità di tenere insieme economia ed ecologia, in un virtuoso rapporto tra impresa e territorio.