Primo agosto 1971. Al Madison Square Garden di New York va in scena “The Concert For Bangladesh”. Il Paese del Bengala (questo il significato del nome) è martoriato dal ciclone Bhola, dalla guerra di secessione con il Pakistan, dalla povertà. Sei milioni gli sfollati, malnutrizione, colera, migliaia e migliaia di morti. George Harrison raccoglie l’appello accorato dell’amico-maestro Ravi Shankar, che gli aveva aperto gli orizzonti sconfinati della musica indiana, e organizza l’evento. È in assoluto il primo “live aid”. Agli incassi del doppio spettacolo, pomeriggio e sera, si aggiunsero i proventi del triplo disco e del film-documentario realizzati in quell’occasione.
Sul palco salirono artisti del calibro di Bob Dylan, Eric Clapton, Billy Preston, Leon Russel. Si era vagheggiato di una riunione dei Beatles ma all’appello di George rispose solo Ringo Starr. John Lennon, mal consigliato da Yoko Ono, diede forfait e Paul McCartney addusse motivi di management. Fu comunque un successo mondiale.
Harrison fece da filo conduttore, introducendo e affiancando gli altri protagonisti, ed eseguendo con la sua Stratocaster bianca pezzi come “While my guitar gently weeps”, “My sweet Lord”, “Here comes the sun”. Ma il punto più intenso fu quando Ravi Shankar, accoccolato in terra, con un costume tradizionale, cominciò a carezzare il sitar. Accanto a lui, Ali Akbar Khan estraeva antichi suoni dal sarod, Kamala Chakravarty pizzicava il suo tambura, Alla Rahka sfiorava e percuoteva la pelle delle due tabla.
Un mistico crescendo di note, che afferrava, e afferra ancora, l’anima di chi ascolta trasportandola nell’empireo della commossa fratellanza. Su uno schermo apparivano le lunghe colonne dei profughi vestiti di stracci e le immagini di corpi privi di vita, rattrappiti e mummificati dalla fame e dalla sete. “Noi siamo musicisti, non facciamo politica”, volle specificare Ravi.
Immagini, musica e parole che tornano alla mente leggendo i nuovi tormenti del Bangladesh. La rivolta delle tessitrici sta infiammando la nazione, tanto popolosa quanto marchiata dall’indigenza. La ministra del lavoro, Mannujan Sufian, ha annunciato lo scorso 7 novembre che il salario per i quattro milioni di addetti al settore dell’abbigliamento aumenterà del 56 per cento e sarà portato a 12.500 taka mensili (105 euro!). Vuol dire che ora, spezzandosi la schiena sui telai, guadagnano meno di cinquanta euro. Ci sarebbe da ridere, se non venisse da piangere. La leader del sindacato, Kalpona Aketr, ha definito inaccettabile la cifra, chiedendo che si arrivi almeno a quindicimila taka. Scioperi, cortei, cariche della polizia. Sono già quattro i manifestanti uccisi.
Le tremila e cinquecento fabbriche del comparto, quasi tutte legate ai grandi marchi internazionali (a quanto ammontano i loro profitti con una mano d’opera così sfruttata?) e che rappresentano l’ottantacinque per cento dell’export complessivo, sono bloccate. Le proteste si inseriscono in un clima già incandescente per le elezioni politiche del prossimo gennaio. La premier Sheikh Hasina, al potere dal 2009, controlla saldamente il parlamento e non intende cedere spazio. Migliaia gli oppositori arrestati. E desta preoccupazione anche il rifiuto di un controllo internazionale del voto.
Ravi Shankar e George Harrison non ci sono più. Chissà se, oggi, avrebbero l’ardire di organizzare un nuovo concerto per il Bangladesh.
Fa sorridere la recensione che il Corriere della Sera riservò al film-documentario: “Dei beniamini del microfono, belluini o lamentosi, a seconda delle circostanze, sarà pur concesso dire che la macchina da presa non giova altrettanto. Vasti tratti dei loro lineamenti sono spesso mimetizzati da chiome lunghe e scomposte, da baffi e barbe incolte, senza che per questo la nostra curiosità rimanga mortificata. Volentieri, dopo le esibizioni, si rinfrancano con una sorsata; i deliranti applausi li ricevono non senza qualche indifferente sussiego. La colonna sonora registra, imperturbabile, il frastuono delle chitarre elettriche e della batteria”.
Nei primi anni Settanta i capelloni e il rock davano ancora scandalo. Anche quando agivano con generosa solidarietà. Altri tempi?
Marco Cianca