Nel 1995 venne pubblicata la prima grande ricerca sul temporary management (di seguito TM), allora da poco sdoganato in Italia con quel nome in modo univoco, guidata dal sottoscritto per Atema, in partnership con L’Impresa: prima occasione in cui questo nuovo mercato inizia ad essere esplorato in maniera sistematica e strutturata.
Delle evidenze emerse allora (e in alcuni approfondimenti successivi), ne vengono riportate solo alcune perché rilevanti ai fini della comprensione di dove siamo oggi:
– Presenza di poche società specializzate di un certo nome
– Poco interesse per il settore da parte di gruppi stranieri
– Servizio poco usato da PMI e aziende di matrice familiare
– Servizio visto come maggiormente adatto per situazioni di crisi
– Molta confusione tra temporary e consulenza.
PMI mercato del futuro in crescita
Già nel 2015, una successiva indagine di Leading Network e IIM Institute of Interim Management Italy, guidata sempre dal sottoscritto in partnership con L’Impresa, GIDP e Manageritalia, mise in evidenza come conoscenza ed utilizzo dello strumento da parte delle PMI fossero sensibilmente aumentati, con un sostanziale cambio di prospettiva in cui il TM veniva visto come un mezzo importante per portare in azienda competenze manageriali.
La conoscenza che le PMI hanno del TM è cresciuta nel tempo ed è oggi ad un buon livello: circa il 60% delle aziende più piccole (sotto i 20 milioni di fatturato) lo conosce, con un utilizzo che si assesta intorno al 10-12% a seconda delle classi di fatturato. Dato che vale anche per aziende molto piccole: nella fascia tra 2 e 5 milioni di euro di fatturato, infatti, la conoscenza dello strumento è pari al 63% con un utilizzo pari all’8%, soprattutto per progetti di lunga durata (es. 24 mesi), ma gestiti a tempo parziale.
In quest’ultimo periodo il discorso è divenuto via via più rilevante e pressante, anche alla luce delle numerose e importanti sfide che le PMI italiane si trovano a dover fronteggiare e che vengono di seguito brevemente tratteggiate.
Ridisegno delle supply chain globali, ovvero la tendenza dei grandi OEM a ridisegnare l’intera catena del valore, che implica forte digitalizzazione delle PMI della filiera e maggiore integrazione tra grandi aziende e PMI. Per queste ultime sono critiche la limitatezza di risorse disponibili e per il non semplice dialogo e interazione con realtà aventi diversi mindset e modi di operare e comunicare.
Necessità di competenze per la digitalizzazione, per passare dalla digitalizzazione «forzata» a quella «ragionata»: circa il 50% delle imprese (Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI, Polimi) deve fare il salto.
Sostenibilità e ESG: se oggi (ormai ieri) era solo una leva di marketing e quasi una «moda» manageriale, domani (ormai oggi) è sempre più leva di vantaggio competitivo, richiesta dalle banche più selettive verso aziende sostenibili e dai grandi OEM (vedi sopra). Il che significa integrare gli obiettivi ESG nella strategia economico-finanziaria aziendale (senza parlare della prospettiva verso il Report Integrato di Sostenibilità.
Passaggio generazionale: tema ipertrattato anche per l’alto numero di PMI ancora non pronte o comunque senza un piano strutturato già avviato. Fanno riflettere le evidenze portate da Confimi in un recente convegno: “un giovane imprenditore su tre (il 33,9%) ha pensato di vendere o cedere l’attività, 1 su 4 lo farebbe se fosse l’unico titolare. C’è poi quasi un 40% (37,3%) che avrebbe effettuato una fusione. C’è poi chi (28% degli intervistati) ispirato a innovativi modelli di relazioni industriali ha pensato di creare una compartecipazione societaria con i collaboratori attualmente dipendenti”.
Transizione dal concetto di esportazione a quello di internazionalizzazione, per aumentare e riqualificare la presenza sui mercati esteri e sfruttare le opportunità offerte dalla rivoluzione dello scenario globale. Ciò richiede un sostanziale cambio di approccio: per citare Confindustria Lombardia e Assolombarda, “bisogna portare sempre più geopolitica nella fabbrica” (che in qualche modo riecheggia il principio del friend shoring rigorosamente applicato dagli USA), così come serve una “presenza più strutturata” ed “essere più locali”, passare progressivamente da una logica che vede i mercati esteri come sbocco addizionale e nulla più ad unache percepisce i mercati esteri come fonte di fattori produttivi e quindi come destinatari di investimenti diretti.
Da non trascurare infine l’impatto di quanto prescritto dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Un ulteriore elemento di preoccupazione riguarda il reale utilizzo dei fondi messi a disposizione dal PNRR: secondo una recente indagine Unioncamere – Centro studi Guglielmo Tagliacarne, solamente un’impresa su tre è pronta a tradurre in progetti concreti le risorse finanziarie del PNRR; ben l’80% delle PMI che non ha a piano di utilizzare le risorse allocate.
Alla base, scarsa informazione e sensibilizzazione, ma anche un fatto strutturale: la sottomanagerializzazione delle nostre PMI che richiede rafforzamento delle competenze manageriali alla luce anche di tutte le sfide sopra citate.
Parlando di aree di intervento in azienda, rileviamo come l’imprenditore tenda a vedere e a privilegiare quelle con un più immediato impatto sul conto economico (es. supply chain, produzione, area commerciale, internazionalizzazione), trascurando almeno in parte le aree finanza e risorse umane, in cui sarebbe peraltro possibile generare rilevanti risparmi e ritorni di efficienza. Su queste aree, è tuttora necessario un grande lavoro di stimolo nei confronti dell’imprenditore: sulla finanza, per fargli superare l’ostacolo, soprattutto psicologico, legato al fatto di dare accesso ai propri conti – e non tocchiamo il tasto delicato del rapporto con gli altri professionisti presenti in azienda), e sulle risorse umane per fargli comprendere il valore economico di una loro gestione in chiave professionale.
A livello globale (indagine internazionale del 2022), il grosso dei progetti TM avviene ancora nel mondo delle aziende medio-grandi, con solo il 26% nella fascia 100-500 dipendenti (teniamo conto che molte aziende familiari si collocano tra 200 e 400 dipendenti) e il 12% nella fascia di quelle più piccole (<100).
Indipendentemente dal crescente utilizzo da parte delle PMI, il mercato italiano resta tuttora un mercato decisamente piccolo se raffrontato con quelli di paesi economicamente grandi come il nostro: parliamo infatti di centinaia di milioni di € a fronte di miliardi.
Temporary e fractional vs. consulenza: aumenta la confusione
Sicuramente, la spinta di marketing sul concetto di fractional (o part time) management, particolare declinazione del TM nata proprio sulla spinta della domanda da parte di imprese molto piccole (es. sotto i 5 milioni), ha contribuito ad avvicinare questa taglia di imprese allo strumento, in situazioni per le quali il classico temporary manager full time potrebbe risultare ridondante, sia in funzione dei tempi che dei costi. In questo modo, è anche possibile dispiegare sul campo team di temporary manager e veri e propri CdA virtuali, come già in uso da anni nei mercati stranieri (es. negli USA). Notazione importante: il bacino di manager è sostanzialmente lo stesso per progetti temporary “classici” e progetti part time.
All’estero, essendo la scelta della modalità operativa (full time o part time) fondamentalmente solo funzione del problema da risolvere e del contesto, restano sempre ben chiare le differenze tra TM e consulenza, sintetizzabili in alcune parole chiave che descrivono cosa fa il temporary (e anche il fractional) a differenza di un consulente: realizza e porta ad attuazione un progetto o un’iniziativa specifica; è un operativo, un esecutivo che “fa”; per fare assume responsabilità dirette, deleghe e poteri.
Se anche in Italia, con il passare degli anni, la distinzione è divenuta chiara e netta nel corso degli anni, in epoche molto recenti, però, l’eccessiva attenzione all’aspetto “esteriore” del fractional rispetto alla sua “essenza manageriale”, ha finito per produrre un effetto perverso.
Sembra infatti essere aumentata l’offerta di servizi di fractional management (non di temporary) a fronte di un numero crescente di operatori che si presentano sul mercato: nella maggior parte dei casi, e basta navigare sul web per rendersene conto, si tratta di società di consulenza che presentano questo servizio nel loro menu di offerta, dato che nella modalità fractional/part time, proprio in virtù delle sue caratteristiche, le differenze tra manager e consulente diventano ancora più sfumate.
Sul temporary questo avviene tuttora in maniera trascurabile anche per il fatto di dover ottemperare a determinate disposizioni legislative (es. autorizzazioni dal Ministero del Lavoro) cosa che non sussiste per il fractional.
Ad incrementare ulteriormente la confusione (soprattutto nella testa delle PMI potenziali utilizzatrici), l’affacciarsi sul mercato del TM in senso lato di “nuovi “operatori. Citiamo ad esempio, una proposta presentata dall’Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili (UNGDCEC) nel corso del Convegno Nazionale 2024 di Piacenza che mira infatti all’introduzione di un credito d’imposta per le Pmi che si avvalgono di commercialisti qualificati come Temporary Manager, al fine di promuovere il risanamento e la crescita aziendale, soprattutto per le imprese familiari.
Allo stesso modo, iniziano ad apparire all’orizzonte servizi di temporary management in ambito HR proposti da studi di matrice legale e/o da consulenti del lavoro.
Qualsiasi allargamento delle modalità di accesso al mercato non è né buono né cattivo in sé, purché, chiunque sia l’operatore, si abbia sempre ben chiaro che l’elemento guida (ovvero il motivo per cui un cliente investe) in un progetto di TM (full time o part time che sia) è sempre il problema del cliente, a fronte del quale si richiedono determinate competenze ed esperienze manageriali. Se ci sono, bene …
Gli operatori sul mercato
Negli anni, il numero di operatori qualificati e specializzati non è cambiato di molto (specie di quelli con significativa esposizione sui mercati internazionali), così come l’interesse da parte di realtà straniere a chiudere operazioni societarie con realtà italiane. Un tentativo, risalente a parecchi anni fa, riguardava l’acquisizione diretta di una società italiana da parte di una straniera: operazione fallita, a detta dell’azionista italiano, per il tentativo di imporre modelli commerciali esteri non accettabili e non accettati. Ricordo i casi di una società USA e di una olandese ritiratisi dopo un primo carotaggio del mercato, stante la difficoltà di poter operare correttamente all’interno della Legge Biagi, visto che entrambe le società “somministravano” i temporary nel loro e in altri paesi.
Il 2024 ha rappresentato un anno di significativa discontinuità: nei mesi scorsi è stata completata l’acquisizione della maggioranza di un importante operatore italiano da parte di un gruppo francese, tra i più rilevanti a livello globale. Nello stesso periodo, altri due gruppi francesi, entrambi finanziati da un fondo di PE, ed un gruppo americano (idem come sopra) si sono mossi in Italia alla ricerca di società da acquisire. Un noto operatore italiano è peraltro “ufficialmente” in vendita.
Quali le conseguenze per il mercato?
Certamente positive in termini di innalzamento della qualità del servizio ai clienti, potendo attingere ad esperienze di successo in contesti molto diversi l’uno dall’altro, e di allargamento dei paesi in cui è possibile seguire un cliente italiano.
Nel caso l’acquirente sia controllato da un fondo di PE, ci sono però alcune aree di attenzione, che operazioni simili effettuate in altri mercati hanno messo in luce:
– Aziende anche piccole, operanti in mercati relativamente piccoli, vengono acquisite nell’ottica di far crescere i volumi e far aumentare il valore complessivo del gruppo nell’ottica di realizzazione della plusvalenza tipico obiettivo di un fondo
– La pressione ad accrescere i volumi tende a sua volta a ribaltarsi sulla società acquisita: in diversi casi all’estero è stata rilevata la tendenza ad una certa riduzione dei prezzi (con beneficio per i clienti), accompagnata però da una pressione sui compensi dei temporary manager per salvaguardare comunque i margini. Non a caso, l’indagine di INIMA sui temporary manager evidenzia come la pressione sul pricing definita alta cresca in prospettiva dal 30% (ultimi 6 mesi) al 41% (prossimi 6 mesi)
Un’ulteriore area di attenzione riguarda la possibile distonia culturale derivante dalle diverse strutture dei mercati, ovvero tra un’Italia a trazione PMI e società estere maggiormente a trazione grandi imprese.
Un’ultima area di attenzione, con valenza però relativa per le aziende clienti, riguarda il tema delle autorizzazioni necessarie ad operare in Italia: il tema origina dal fatto che le società straniere per lo più “somministrino” (contrattualizzino il temporary manager) e che quelle italiane, per lo più, abbiano un’autorizzazione ministeriale per l’attività di ricerca e selezione.
Il punto è ben chiarito da David Trotti, Membro della Commissione di Certificazione presso l’Università Telematica “Universitas Mercatorum” di Roma: “… è necessario precisare che questa attività (ricerca e selezione) ha i suoi limiti (essendo circoscritta a ricerca, selezione ed inserimento) e non può/deve “esondare” fuori dell’attività per cui è stata autorizzata e, cioè, non può proporsi o diventare attività di somministrazione di manodopera, a meno che il lavoratore non venga inserito come dipendente all’interno della società per cui si è fatta selezione, oppure la società di R&S sia dotata di autorizzazione a somministrare”.
Il 2025 potrebbe vedere la chiusura di nuove operazioni: non ci resta che attendere …
Maurizio Quarta – Vice Presidente Confassociazioni Management