Considero la pratica della maternità surrogata una forma di moderno schiavismo. E non riesco a concepire come delle grandi organizzazioni democratiche possano esitare o giustificare questo traffico di carne umana, in nome di una concezione dei nuovi diritti civili che, a mio avviso, possono essere ricondotti ad un verso di Dante: “licito fè libito in sua legge”. E’ una grande ipocrisia – anche se il problema esiste e va risolto – riconoscere alla presenza di minori innocenti una sorta di sanatoria dei misfatti di chi li ha messi in quelle condizioni. Un insigne giurista – che io non stimo – ha sostento che mettere a disposizione l’utero è come cedere un rene. Dipende da come viene eseguita un’operazione siffatta: è sicuramente un atto di generosità e di amore farsi asportare un rene per salvare la vita a un parente o a un amico; ma sarebbe uno sporco traffico se ci si affidasse ad una organizzazione che arruola, in un Paese povero, tanti disperati disposti a cedere un organo dietro compenso. Quando si parla di maternità surrogata nessuno può far credere che basti andare in giro per le strade di una megalopoli del Terzo mondo e chiedere alle passanti se sono disposte ad affittare il loro utero a pagamento. È evidente che occorre mettersi in contatto con organizzazioni di trafficanti che lucrano sul corpo delle donne che si rendono disponibili, taglieggiano la loro tariffa. E non si venga a dire che si tratta di una libera scelta quando da noi viene teorizzato che persino un rapporto di lavoro a part time può essere involontario (anzi, nelle statistiche lo è considerato come prevalente). Chi compie atti di disposizione del proprio corpo in cambio di denaro, anche se non costretto da un agente esterno, versa quasi certamente in uno stato di indigenza, soprattutto in quei paesi dove le condizioni di miseria riguardano la maggior parte della popolazione. E i clienti sono consapevoli di approfittare di questa condizione. Non esito a dire che questa pratica è più grave del c.d. turismo sessuale. La temporaneità della permanenza in territorio estero, infatti, non è inidonea a produrre uno stato di soggezione continuativa tipico della schiavitù, che si realizza concretizzandosi in un vero e proprio mutamento dello stile di vita della vittima. Lo stesso soggetto che si prostituisce è consapevole della permanenza solo temporanea del cliente, il che attenua di molto lo stato di soggezione che invece viene esercitata in modo più efficace dal soggetto che gestisce il traffico di esseri umani che di solito è radicato sullo stesso territorio della vittima. Nel caso, invece, di maternità surrogata vengono contratti degli obblighi che condizionano la vita, la salute della donna per tutto il corso della gestazione, al momento e dopo il parto. E’ evidente che la donna non può permettersi di cambiare idea, ma è tenuta ad adempiere alla prestazione negoziata sotto perenne minaccia, non solo economica, ma anche fisica, dal momento che l’interpretazione di siffatti “contratti di locazione” non può essere portata in giudizio, ma la si affronta sulla base dei rapporti di forza e con metodi che hanno a che fare con la criminalità. A proposito, poi, di reato universale, la definizione è impropria, ma non è una novità che certi crimini possono essere puniti in Italia, anche se commessi da concittadini all’estero. Allo scopo, ad esempio, di rafforzare la lotta contro lo sfruttamento sessuale dei minori e reprimere il fenomeno del turismo sessuale, l’art. 604 del codice penale – in deroga al principio della territorialità – prevede che lo Stato Italiano possa perseguire il cittadino che ha commesso reati di natura sessuale nei confronti di minori in uno stato estero.
Giuliano Cazzola