Qualche mese fa Prometeia ha presentato i risultati di un indagine condotta su un campione rappresentativo delle imprese italiane (manifatturiere, servizi, grande distribuzione, trasporti, ecc).
Da tale indagine è emerso che le aziende affidate alla gestione di uno o più manager non appartenenti alle famiglie imprenditoriali erano cresciute più del dato medio di riferimento in termini di fatturato, margini, occupazione, produttività, internazionalizzazione.
Una ricerca che, quindi, suffraga con dati oggettivi le nostre politiche a favore di un “capitalismo più manageriale” in cui cultura imprenditoriale e cultura manageriale si integrano, si completano, si contaminano.
Ma altre indagini, non meno autorevoli, ci dicono che il contesto in cui operiamo è molto più articolato e problematico: ci mette di fronte a situazioni con cui è necessario fare i conti sul piano associativo, contrattuale, ecc.
Una prima fonte di riflessioni è costituita dalla ricerca svolta da KPMG in collaborazione con European Family Business Federation, finalizzata a rilevare come le imprese familiari europee (14 milioni con 60 milioni di addetti) stiano affrontando il così detto passaggio generazionale.
Ebbene, solo il 14% di queste prevede di affidare la propria gestione ad un manager esterno alla famiglia: il motivo di questa percentuale così modesta sta nella “diffidenza” verso tale soluzione.
In Italia detta percentuale è ancora più bassa nonostante sia cresciuta la consapevolezza che il talento imprenditoriale non sempre si eredita, che il ricorso pianificato a manager esterni può essere lo strumento per garantire un efficace trasferimento delle competenze e, soprattutto, la continuità aziendale.
E proprio in tema di successione e/o passaggio generazionale ci vengono in aiuto i risultati di una ulteriore indagine, quella realizzata da Ernst & Young Italia: ne emerge che nel 2015, rispetto al 2011, i giovani figli di imprenditori che si sono dichiarati disposti ad entrare in azienda sono diminuiti del 30%.
Dei giovani disponibili solo il 3,5% intende entrarvi subito dopo aver concluso gli studi, mentre il 4,9% intende farlo dopo 5 anni e dopo aver fatto altre esperienze.
A fronte di questa situazione – commenta l’Amministratore Delegato di EY Italia – mentre nei paesi del nord Europa c’è una significativa propensione a delegare la gestione a manager esterni la famiglia, nei paesi dell’Europa mediterranea la cultura ed i legami famigliari ostacolano o rendono molto più difficile questo processo…le nuove generazioni non hanno tanta voglia di succedere ai genitori, hanno interessi ed aspettative diverse.
In sintesi, mentre alcuni dati ci dicono che più management non famigliare fa bene all’azienda e quindi dovrebbe essere un fenomeno in crescita spontanea, altri ci parlano di diffidenza e difficoltà culturali verso questa soluzione: il 21% degli imprenditori addirittura preferisce vendere la propria azienda anziché affidarsi ad un dirigente esterno.
Ciò detto, poiché il nostro Paese è, più di altri, connotato dall’impresa famigliare penso che tutto quanto sopra meriti, da parte di CIDA e delle sue Federazioni una riflessione attenta e lungimirante: lo dico perché il nostro futuro come categoria è intimamente legato al futuro del nostro sistema imprenditoriale, a come saprà o non saprà evolvere, a come saprà posizionarsi o meno sul mercato globale.
Mentre assistiamo a drastici ridimensionamenti degli organici dirigenziali nelle poche grandi imprese rimaste, a demansionamentibrutali, ad acquisizioni da parte di capitali esteri di interi settori produttivi (TLC, grande distribuzione, catene alberghiere, moda, alimentare) con conseguenti cambiamenti nei modelli di governance manageriale, dobbiamo interrogarci per dare unarisposta adeguata anche ad un altro tema rilevante.
Quando parliamo di management nelle nostre piccole e medie imprese familiari in fondo in fondo lo facciamo pensando a figure dirigenziali che facciano riferimento al nostro sistema di rappresentanza, ai nostri contratti, ai nostri strumenti di welfare.
Invece non possiamo darlo per scontato perché è sempre meno così: sempre più spesso ruoli manageriali, una volta tipicamente dirigenziali, oggi vengono affidati a quadri, professional e partite IVA: figure manageriali ad alta professionalità che non intercettiamo o lo facciamo con enorme fatica e risultati marginali.
Ed allora, pur sapendo quanto l’argomento sia scabroso penso andrebbe affrontato aprendo una riflessione con chi rappresenta il sistema delle imprese: dobbiamo capire quali possono essere, in questa nuova concezione di management, i confini della nostra rappresentanza e quale ruolo il sistema delle imprese è disposto a riconoscerci anche nell’interesse delle stesse aziende.
In una fase economico-sociale in cui tutto sta cambiando e tutti invocano discontinuità e innovazione penso sia giusto e doveroso tentare di diventare, nei fatti, i soggetti di rappresentanza non solo della dirigenza ma di tutto il variegato mondo delle alte professionalità non ordinate.
Giorgio Ambrogioni