Come non bastasse l’attesa spasmodica del 24 gennaio (quando dovrà pronunciarsi sull’Italicum) arriva un’altra data chiave legata alla Corte Costituzionale: e’ l’11 gennaio, giorno in cui la Consulta porterà in camera di consiglio l’ammissibilità dei tre referendum abrogativi in materia di lavoro promossi dalla Cgil. La notizia e’ stata resa nota stamattina, da un comunicato della stessa Corte. I quesiti riguardano la cancellazione dei voucher, il ripristino dell’articolo 18 nelle aziende sopra i 5 dipendenti (nella precedente versione della legge 300 era sopra i 15) e la reintroduzione della piena responsabilità solidale in tema di appalti.
Sull’argomento si e’ già pronunciata la Cassazione, che recentemente ha giudicato validi i 3,3 milioni di firme raccolte dalla Cgil. Se l’11 gennaio la Consulta riterrà ammissibili anche i quesiti, la consultazione popolare dovrebbe svolgersi in primavera. Dovrebbe: perché se si tenessero elezioni anticipate il referendum slitterebbe all’anno prossimo. In questa direzione sembra orientarsi il governo: il ministro del Lavoro appena riconfermato, Giuliano Poletti, interpellato al proposito, ha affermato che ‘’l’orientamento prevalente e’ quello di votare presto’’. In altre parole: possibilmente prima dei referendum sul Jobs act. In alternativa, e’ possibile che il parlamento, dopo il pronunciamento della Corte costituzionale, rimetta mano ai provvedimenti oggetto del referendum, modificandoli e rendendo quindi inutile la consultazione. Ma sembra un’opzione improbabile: l’abolizione dell’articolo 18 e’ – a torto o a ragione- considerata il cuore del Jobs Act, quindi sostanzialmente immodificabile.
Anche per questo, il referendum costituisce una spada di Damocle sulla testa della maggioranza di governo: dopo il voto sulla riforma costituzionale, si avrebbe a brevissima scadenza una campagna elettorale forse ancora più dura, che potrebbe avere strascichi pesanti sulle successive elezioni politiche. Ma anche la Confindustria e’ preoccupata. Lo ha detto chiaramente, stamattina, Vincenzo Boccia, che ha definito tutta la partita un ‘’capolavoro di ansieta’’: “Abbiamo fatto il Jobs act e adesso se arriva il referendum cosa accade? Di conseguenza, io imprenditore attendo e non assumo. Questi sono i capolavori italiani dell’ansietà e dell’incertezza totale . E se noi non prendiamo posizioni su alcune cose, l’ansietà del sistema Paese, di giorno in giorno, aumenta, i consumatori non consumano, gli investitori attendono e questo è un problema”. Secondo la Confindustria, grazie al Jobs act e agli incentivi ci sono oggi più occupati stabili di quanti ce ne fossero in precedenza: “Con l’istituzione transitoria della decontribuzione sulle assunzioni a tempo indeterminato e l’introduzione del contratto a tutele crescenti si è osservato un cospicuo aumento dell’occupazione a tempo indeterminato che ha trainato la crescita dell’occupazione totale”, si legge nel rapporto presentato proprio oggi dal Centro Studi di Confindustria negli ultimi Scenari Economici.
Di parere ovviamente opposto la Cgil, che nella primavera scorsa ha infatti avviato la raccolta di firme appunto per modificare il detestato Jobs act. Il via libera ufficiale al referendum era arrivato dal Direttivo della confederazione il 22 marzo, l’apertura ufficiale dei ‘’banchetti’’ per la raccolta e’ datata 7 aprile, dopo un percorso lungo due mesi, iniziato con la consultazione dei lavoratori: 40.000 assemblee nei luoghi di lavoro, concluse con un plebiscito: quasi all’unanimità, i 1.466.697 lavoratori che si sono espressi hanno dato parere favorevole, rispettivamente il 98,49% alla proposta di legge di iniziativa popolare per una nuova Carta dei diritti universali del lavoro, e poco meno, il 93,59%, al referendum. Una partecipazione, aveva sottolineato all’epoca Susanna Camusso, “veramente straordinaria, anche di non iscritti alla Cgil, considerato che le assemblee erano aperte’’.
Dopo il voto (unanime) del Direttivo, era poi partita la raccolta delle firme, seguendo i tempi istituzionali: 6 mesi per l’iniziativa di legge e 3 mesi per il referendum, con l’allestimento di migliaia di banchetti e gazebo in tutta Italia. E tuttavia, precisava la Cgil in una nota: “La scelta referendaria, a carattere eccezionale e straordinario è coerente ed è unicamente finalizzata al sostegno della Proposta di Legge di iniziativa popolare che la Cgil avanza con la ‘Carta’, che è e rimane il cuore e la finalità dell’iniziativa decisa dalla Cgil”. Concetto ribadito anche da Camusso: “la nostra speranza è che il parlamento faccia una legge, per noi il referendum è solo un pungolo al parlamento, non l’obbiettivo finale. Quindi speriamo che con tante firme si arrivi a legiferare e quindi a far cadere i quesiti referendari”. Le firme sono state in effetti tantissime, 3 milioni e 300 mila, sia sulla legge, sia sul referendum: consegnate queste ultime alla Cassazione, e le prime a Montecitorio.
Nel frattempo, però, molte cose sono cambiate. Il governo Renzi e’ caduto proprio su un referendum –sul quale, vale la pena di ricordarlo, la Cgil si e’ espressa con determinazione per il No, mettendo in campo una tostissima campagna elettorale fitta di eventi quasi quotidiani, spesso in tandem con Anpi e Arci- e quindi potrebbe esserci adesso la voglia di stravincere, portando a casa anche una vittoria contro il Jobs act. Non e’ peraltro detto che il colpo riuscirebbe: questi referendum richiederebbero innanzi tutto il quorum, e inoltre non sara’ facile convogliare sulla reintroduzione dell’articolo 18 una forza compatta come quella che si e’ mobilitata sulla Costituzione. Tocca poi capire come si schiererebbero le altre sigle sindacali, Cisl e Uil: non e’ affatto detto che appoggerebbero i quesiti referendari, anche se oggi la Uilm, per bocca del segretario Rocco Palombella, non ha affatto escluso questa possibilità.
Ma anche se l’iniziativa della Cgil avesse come unico risultato l’anticipazione delle elezioni politiche, sarebbe comunque un risultato molto forte: significherebbe, per esempio, che una organizzazione spesso tacciata dall’ex premier Matteo Renzi ( e non solo) come residuale e ininfluente, continua ad avere, invece, un peso politico enorme. Un peso che le arriva non solo da una storia ultracentenaria e da una base di quasi 6 milioni di iscritti, ma anche da una potenza di fuoco, in termini di capacità organizzativa e di comunicazione capillare sul territorio, che nessun partito oggi può più nemmeno sognarsi. E che in troppi, forse, avevano fin qui sottovalutato. Dai media, che hanno ignorato sia la raccolta delle firme che le tantissime assemblee anti – riforma costituzionale targate Cgil, alla politica: che mai avrebbe immaginato una Cgil in grado di influenzare, persino, la data delle elezioni.
Nunzia Penelope