La banca, assumendo il dipendente, ha inserito nel contratto di lavoro un patto di non concorrenza; questo patto valeva nel caso in cui il rapporto di lavoro fosse cessato prima dei 3 anni dalla sua data di stipulazione. Se il rapporto di lavoro fosse cessato prima di questi 3 anni, il lavoratore non avrebbe potuto prestare attività lavorativa in concorrenza con la banca per la quale aveva prestato la sua opera, per la durata di 20 mesi. Il compenso previsto a favore del lavoratore per il patto di non concorrenza è stato convenuto dalle parti nella somma di euro 10.000 all’anno (da corrispondersi in 2 rate mensili posticipate per ogni anno di servizio reso). Il lavoratore avrebbe percepito l’intero compenso solo se il rapporto di lavoro fosse durato 3 anni.
Il Tribunale e la Corte di Appello di Milano, chiamati a pronunciarsi sulla validità di questo patto, lo hanno dichiarato nullo, liberando il lavoratore, cessato il rapporto di lavoro, da ogni obbligo di non concorrenza; con la dichiarazione di nullità i giudici hanno condannato il lavoratore a restituire quanto percepito a tale titolo. La nullità del patto di non concorrenza è stata dichiarata per la indeterminatezza e la indeterminabilità del corrispettivo del sacrificio richiesto al lavoratore, in quanto correlato alla durata del rapporto di lavoro, in mancanza di un importo minimo garantito e perciò non congruo. Per i giudici di merito, la nullità del patto derivava dal fatto che, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, prima della scadenza del triennio, come nel caso di specie, al dipendente non sarebbe spettato l’intero importo di Euro 30.000, bensì un importo (appunto non determinabile né determinato) collegato alla durata del rapporto di lavoro.
La banca, non condividendo la decisione dei giudici milanesi, ha proposto ricorso alla Cassazione che l’ha accolto rimarcando con forza che con questa sua decisione dava continuità ad un indirizzo giurisprudenziale che ha espresso in più occasioni.
La Corte Suprema ha così motivato questa sua decisione:
…, questa Corte ha ripetutamente affermato che il patto di non concorrenza, anche se è stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, rimane autonomo da questo, sotto il profilo prettamente causale, per cui il corrispettivo con esso stabilito, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere soltanto i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c. (Cass. n. 16489/2009) e, quindi, deve essere “determinato o determinabile”;
per quanto riguarda la nullità, espressamente comminata dall’art. 2125 c.c., è stata affermata (v. le sentenze sopra citate ed i richiami giurisprudenziali ivi contenuti) in proposito la necessità, per giungere a tale declaratoria, di una rigorosa valutazione in ordine alla sussistenza di un corrispettivo in favore del prestatore che risulti manifestamente iniquo o sproporzionato in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed a ogni circostanza del caso concreto;
operano, quindi, su diversi piani la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo che spetta al lavoratore, quale vizio del requisito prescritto in generale dall’art. 1346 c.c., per ogni contratto, e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo “non è pattuito” ovvero, per ipotesi equiparata dalla giurisprudenza di questa Corte, sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato;
rispetto a tali premesse, la sentenza impugnata reca una anomalia motivazionale, per essere pervenuta ad affermare la nullità del patto in modo improprio, senza accertare se il corrispettivo pattuito (pacificamente esistente) fosse da considerare simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, ed operando una sovrapposizione tra la questione della determinabilità del corrispettivo, diversa da quella della sua congruità; infatti la variabilità del corrispettivo rispetto alla durata del rapporto di lavoro non significa che esso non sia determinabile in base a parametri oggettivi (tenendo anche conto, che, a monte, è stato altresì contestato che la cessazione del rapporto effettivamente avesse influenza sull’ammontare del PNC dovuto);
la sentenza impugnata non tiene adeguatamente distinte cause di nullità del patto di non concorrenza che operano giuridicamente su piani diversi: un vizio sotto l’aspetto della determinatezza o determinabilità dell’oggetto e l’altro sotto il profilo dell’ammontare del corrispettivo simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato; tale sovrapposizione genera incertezza sull’iter logico seguito per la formazione del convincimento del giudicante, precludendo un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento;
dall’accoglimento del suddetto motivo di ricorso deriva la Cassazione della sentenza impugnata, con rinvio al giudice d’appello indicato in dispositivo che dovrà procedere a nuovo esame, valutando distintamente la questione della nullità per mancanza del requisito di determinatezza o determinabilità del corrispettivo pattuito tra le parti e, poi, verificando che il compenso, come determinato o determinabile, non fosse simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresentava per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato,
Cassazione civile sez. lav., 11/11/2022, (ud. 13/09/2022, dep. 11/11/2022), n.33424
Il ricorso in Cassazione è stato depositato nel 2018. È stato deciso dalla Cassazione nel 2022. Dal deposito alla pronuncia sono passati 4 anni ma non è ancora finita perché adesso dovrà pronunciarsi nuovamente la Corte di Appello alla quale la causa è stata rinviata per riesaminare il caso, secondo i principi affermati dalla Cassazione nella sua sentenza.
Biagio Cartillone