Il 2 ottobre del 1925, appena trascorsi tre anni dalla Marcia su Roma, a Palazzo Vidoni (dove ora ha sede il Ministero della Funzione pubblica) fu sottoscritto un accordo con il quale la Confindustria riconosceva l’esclusività della rappresentanza sindacale alla Confederazione fascista. Ecco, di seguito, il testo:
“La Confederazione generale dell’industria riconosce nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici.
La Confederazione delle corporazioni fasciste riconosce nella Confederazione generale dell’industria e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli industriali.
Tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le Organizzazioni dipendenti della Confederazione dell’industria e quelle dipendenti della confederazione delle corporazioni.
In conseguenza le commissioni interne di fabbrica sono abolite e loro funzioni sono demandate al sindacato locale, che le eserciterà solo nei confronti della corrispondente Organizzazione industriale.
Entro dieci giorni saranno iniziate le discussioni delle norme generali da inserirsi nei regolamenti.”
Fu il primo passo verso la soppressione della libertà sindacale. Nello Stato corporativo (la Carta del Lavoro è del 1927) alle organizzazioni imprenditoriali e dei lavoratori – inquadrate all’interno di categorie definite in via amministrativa come vere e proprie articolazioni statuali – era affidato l’obiettivo di concorrere a realizzare l’interesse nazionale ed avevano il compito di stipulare contratti validi erga omnes. Ma questa è un’altra storia che ebbe termine con la caduta del Fascismo il 25 luglio del 1943, a cui seguì il commissariamento dei sindacati di regime e la fondazione della Cgil unitaria. Per ragioni facilmente comprensibili rimasero in vigore gli accordi vigenti che poi furono trasformati in contratti di diritto comune attraverso la rinata libertà negoziale. E’ bene ricordare, poi, che tutti i regimi totalitari del Secolo breve fecero ricorso ad analoghe regolamentazioni dell’attività sindacale (il Fascismo fece scuola): le organizzazioni – sotto forma di sindacato unico e sovente obbligatorio – erano saldamente controllate dal potere politico; lo sciopero e la serrata erano reati perché lesivi degli interessi nazionali; l’ordinamento interno era preordinato dai vertici mediante un rigido modello gerarchico (non a caso una delle riviste più esclusiva di quei tempi si chiamava proprio ‘’Gerarchia’’).
Perché ho voluto ricordare questo ‘’passaggio’’ della storia sindacale (e politica) italiana? I sindacati, allora, furono anch’essi travolti dalla sconfitta politica della società liberale e ne subirono le conseguenze. La libertà sindacale, infatti, è una delle stimmate che contraddistinguono la democrazia. Quando essa viene repressa, l’organizzazione sindacale (così si esprime il primo comma dell’articolo 39 Cost.) è la prima ad essere colpita; ed è la prima a rinascere quando un ordinamento democratico viene riconquistato. Col Patto Vidoni e con il varo della Carta del Lavoro le libere confederazioni di quei tempi furono dapprima esautorate poi soppresse, con atti d’imperio. I lavoratori dovettero prenderne atto e adattarsi alle regole loro imposte (quelle del Pnf e del sindacato corporativo diventarono le ‘’tessere del pane’’), almeno fino a quando non ritornarono padroni del proprio destino, dopo la vittoria degli Alleati, la sconfitta dei regimi fascisti e la Resistenza.
Chi scrive è stato dirigente sindacale, ricoprendo diversi incarichi importanti, per circa trent’anni, durante i quali ha compiuto missioni all’estero in Paesi dove la libertà sindacale era conculcata da regimi tirannici. Ed il modello era, più o meno, sempre lo stesso: esisteva un sindacato di regime, mentre i sindacati liberi avevano subito la medesima repressione riservata ai partiti democratici, anche quando (ricordo l’esperienza della Coordinadora sindical nel Cile di Pinochet) erano riusciti a difendere un minimo di agibilità politica che, in una certa misura, garantiva anche quella dei partiti soppressi.
Tutto ciò premesso, non riesco a capacitarmi di come sia stato possibile, in Italia, che grandi confederazioni sindacali di secolari tradizioni democratiche, solidaristiche, progressiste ed internazionaliste siano divenute conquistabili dall’interno da realtà di chiaro orientamento parafascista, discriminatorio e populista. Evidentemente ciò non è avvenuto di nascosto o attraverso infiltrazioni (come ai tempi delle Br), ma in seguito ad una trasformazione culturale e politica di vasti settori di classe lavoratrice. Ritengo, però, che questa situazione costituisca il vero problema che oggi i gruppi dirigenti sindacali devono affrontare.
Alla mia riflessione angosciata non viene una risposta convincente dall’episodio che Maurizio Landini è solito raccontare nei suoi interventi durante i congressi o in tv. L’ex leader della Fiom, candidato a sostituire Susanna Camusso, narra di aver incontrato, in un autogrill nei pressi di Pescara, dei militanti della Cgil che lo hanno riconosciuto ammettendo di aver votato, il 4 marzo, per Salvini. Tuttavia, essi lo invitavano a difendere i loro interessi e a non fare sconti neppure al governo giallo-verde. Non mi permetto di interpretare il senso che Landini intende dare a questo racconto, anche se a me pare il seguente: al sindacato resta il compito di difendere gli interessi dei lavoratori che sono sempre gli stessi a prescindere da come votano alle elezioni politiche. Anzi, a suo avviso ribadito più volte, un governo che vara il jobs act non è di sinistra.
Troppo semplice. Se così fosse non si capirebbe perché esista un pluralismo sindacale che sopravvive (non solo per inerzia) alla scomparsa delle ideologie che hanno in qualche modo ‘’formattato’’ le diverse organizzazioni storiche. Certo, i sindacati sono lo specchio del Paese: di un’Italia che, nel XXI secolo, non ha esitato ad affidarsi liberamente alle nuove edizioni ed espressioni di quel fascismo dal de cuius del quale era stata liberata nel XX. E tale situazione non può non condizionare l’azione dei sindacati. Non è un caso che Cgil, Cisl e Uil (‘’unite si temporeggia’’ è il loro slogan di oggi) assistano, imbelli, allo sfascio del Paese. Gran parte della loro base parteggia per gli sfascisti.
Giuliano Cazzola