E’ in gran parte comprensibile il motivo della suspence che la Fiat sta creando in merito alle sue decisioni sull’investimento nello stabilimento di Pomigliano d’Arco. Perché probabilmente i piani alti di Corso Marconi non sanno bene che cosa fare, se cioè andare avanti negli investimenti indicati o invece soprassedere. E anche perché nell’animo dell’amministratore delegato c’è sicuramente un po’ o tanta amarezza. Marchionne contava sull’importanza del piano che aveva indicato ai lavoratori di Pomigliano, sperava di risolvere tutto con una spallata, si è trovato in mano un risultato a metà, né buono né cattivo, sicuramente non tale da dare le certezze che gli servivano.
La richiesta che aveva avanzato era infatti precisa, la governabilità dello stabilimento campano. Per arrivare ai livelli produttivi programmati la fabbrica dovrebbe funzionare come un orologio, senza ritardi, senza inceppamenti. Il che, in quello stabilimento, è un po’ come chiedere la luna. Enzo Mattina, che è stato tanti anni fa segretario generale della Uilm e Pomigliano lo conosce bene, ricorda che una volta i dirigenti della fabbrica trovarono tutti i diecimila operai (allora i lavoratori erano molti di più) in fila avanti all’ambulatorio medico della fabbrica. Siete in sciopero?, chiesero. No, gli fu risposto, assolutamente no, è che c’è l’inflazione, ci fa venire il mal di testa, siamo venuti a chiedere una pasticca.
Senza arrivare a questi eccessi, quasi da barzelletta se non fossero veri, è chiaro che la fabbrica dovrebbe lavorare in un modo diverso da come ha fatto fino a ora. Ma per fare questo serve il consenso. Marchionne ha cercato quello dei sindacati e non l’ha trovato, almeno non l’ha trovato nella Fiom. Ha cercato allora quello dei lavoratori e anche questi, o comunque il 38% di loro, gli ha detto di no. Adesso che fare? La fabbrica così non è gestibile, non nella maniera sperata, auspicata e forse necessaria.
Si potrebbe andare avanti come se non fosse successo nulla, sperando che l’accordo, anche se separato, dia i frutti sperati, magari con un irrigidimento del clima n fabbrica. E’ possibile, ma pericoloso proprio perché basta poco per fermare tutto lo stabilimento. L’alternativa purtroppo esiste ed è dolorosa per i lavoratori, Napoli, la Campania. Perché la Fiat potrebbe annullare l’operazione, l’investimento lasciando la produzione della Panda in Polonia, dove sono pronti a qualsiasi concessione, e portando a Pomigliano qualche lavorazione minore, tanto per non andare a una guerra, ma in pratica lasciando quella fabbrica morire più o meno lentamente.
Sarebbe una catastrofe, perché Napoli, come anche Caserta, da anni sta perdendo tutti i veri insediamenti industriali, assediati dalla malavita organizzata. Il capoluogo campano ha i tassi più alti di disoccupazione, e non c’è luce in quel tunnel di crisi che faccia sperare in un cambiamento di prospettive. La Fiat aveva fatto il miracolo, aveva fatto balenare la possibilità non certo della felicità, ma sicuramente di un posto di lavoro dignitoso, della possibilità di lavorare, di guadagnarsi il pane e ottenere un posto rispettato nella società senza doversi inchinare ai voleri dispotici della camorra. In questa prospettiva terribile non sarebbero solo i precari a perdere il loro posto di lavoro, ma gli stessi lavoratori della fabbrica Fiat, che del resto da mesi stanno provando il morso della cassa integrazione, tanto che sono quasi tutti già nelle mani dell’usura.
E’ vero che anche rinunciare ai diritti sanciti nei decenni passati farebbe male e i lavoratori Fiat, almeno il 38% di loro ha orgogliosamente alzato la testa e ha detto di no a un accordo che non capivano e respingevano in nome di ideali forti, in nome delle loro tradizioni. Il punto è però che adesso devono solo sperare che la Fiat cambi idea, che ritenga possibile l’investimento anche senza quella governabilità che era stata richiesta. La speranza è che alla fine questa speranza non vada delusa e che per Pomigliano, per Napoli, per tutto il Sud si apra qualche spiraglio di luce.
Massimo Mascini