Luigi Pintor moriva sobriamente, come sobriamente era vissuto, il 17 maggio 2003. Un eccelso uomo di cultura, un appassionato politico, ma soprattutto un giornalista. Anzi, un grande giornalista. Possedeva le doti per entrare nell’empireo dei più acclamati, e pagati, professionisti del settore ma lui all’ipocrisia dell’oggettività aveva preferito la trasparenza della partigianeria. Non si tratta qui di ricostruire l’avventura di quel manipolo di eretici che fu cacciato dal Pci e che diede vita al gruppo del Manifesto, ma di ricorrere, nei giorni della sua scomparsa, in coincidenza con i primi bilanci sulla pandemia, all’eredità intellettuale e morale di questo combattente delle idee troppo presto dimenticato.
“Il male ha una fantasia illimitata”, scriveva nel libro “Il nespolo”, raccolta di pensieri attribuiti a Giano (evidente richiamo al fratello Giame ucciso a 24 anni da una mina tedesca nel dicembre del ’43), personaggio autobiografico che decide di sedersi sotto un albero “a contare i giorni senza più cedere alle tentazioni mondane”. Divagazioni, massime, sentenze, aforismi, epitaffi, epigrammi, così definiva questa raccolta di riflessioni, amare, tristi, sfiduciate, sull’esistenza e sulla società: “Gioia e dolore sono due parole antiche che avevano una qualità ma l’hanno perduta. Crescita e sviluppo sono due parole (anzi una) che non avevano qualità ma che ora esauriscono il vocabolario. La società moderna è come un individuo che ha per modello l’obesità. Questo meccanismo evolutivo della specie dalle origini all’ estinzione non è stato deciso da nessuno né in cielo né in terra. È autopropulsivo e si alimenta da sé come una metastasi. È autodistruttivo e avrà termine per indigestione”.
Parole che sembrano pronunciate oggi. E allora viene voglia di accoccolarsi accanto a lui, appoggiati al tronco, sotto i rami carichi di nespole, a guardare stupefatti il desolante spettacolo di un’Italia che si affanna ad uscire da due mesi di paralisi esibendo un rinnovato rancore. Come prima, peggio di prima. Avevamo finito a gennaio con la contesa sulla prescrizione, abbiamo ripreso con la mai sopita polemica sulla trattativa Stato-mafia, stavolta in uno scontro, quello tra il magistrato Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, tutto interno al fantastico mondo manettaro dei cinque stelle. Gli immigrati, di nuovo, non sono persone come noi ma carne da polemica, numeri, estranei, nemici, invasori. Il carosello della politica è sempre più sguaiato. Resisterà Conte, arriverà Draghi? L’euroscetticismo dilaga e una possibile Italexit raccoglie crescenti consensi. L’opposizione soffia sul fuoco della ribellione e il governo arranca tra strumentali divisioni e supponenti ingenuità. Promesse mancate, soldi che non arrivano, scandalo delle mascherine. La mala bestia della burocrazia è più forte dell’emergenza economica e ghigna, irridente. insensibile, cieca.
L’odio, per un poco frenato dalla paura, ora dilaga di nuovo nel mare sporco dei social. Silvia Romano (potevano essere evitati tanto clamore e le passerelle mediatiche) è sommersa da insulti e minacce. Le rimproverano la conversione alla fede di Maometto e gridano allo scandalo per il riscatto pagato ai terroristi islamici che la tenevano prigioniera. Ma quanto vale una vita? Meglio una martire, in un delirio alla Santa Maria Goretti, di una ragazza sorridente?
Pensavamo che l’incubo del contagio, il timore della malattia, la vista delle bare in una deserta processione, avessero intenerito i cuori e fatto riflettere sul senso della morte. Non è così. “La gente non sopporta di avere un comune destino e ciascun individuo si considera un’eccezione”, annota Pintor. Sì, caro Luigi, il vero male è l’egotismo. Più forte di qualsiasi virus e di ogni velleità di cambiamento.
Marco Cianca