Solo il 28% dei lavoratori partecipa a percorsi di formazione continua strettamente legata al mondo del lavoro. È quanto emerge dal 2° rapporto, presentato a Roma, curato dall’Osservatorio sulle libere professioni di Fondoprofessioni, fondo interprofessionale che conta quasi 45mila aziende aderenti, il 93% delle quali non supera i 9 dipendenti.
Il dato ci posiziona di quasi dieci punti sotto la media europea al 37,1%, e di 26 punti rispetto alla Svezia, che fa registrare la maggiore partecipazione con il 53.6%. Se poi guardiamo la formazione non formale, ossia quella erogata fuori dai canali formativi scolastici e accademici, il tasso di partecipazione del nostro paese si attesta al 35%, rispetto al 44% della media europea e al 63,6% della Svezia.
Numeri allarmanti, che mettono l’Italia in una condizione di forte svantaggio competitivo con gli altri stati. Nell’epoca della grandi transizioni, digitale e verde, e nella crisi demografica che stiamo vivendo, la formazione diventa investimento non solo per il singolo ma per l’intero sistema paese. I lavoratori più formati hanno maggiore possibilità di trovare un posto di lavoro, di restare meno disoccupati, di avere percorsi di carriera e uno stipendio più gratificanti.
Anche sul fronte delle competenze l’Italia arranca nelle ultime posizioni. Secondo l’indagine Ocse-Piaac che le esamina, su una scala di valori tra 0 e 500, suddividendole in tre macro aree, literacy, ossia la capacità di comprendere e confrontarsi con un testo scritto, numeracy, la cognizione e l’analisi di un problema matematico, e l’adaptive problem solving, cioè l’individuazione di soluzioni in un contesto aperto e dinamico, i nostri punteggi sono tutti al di sotto della media Ocse di 260. E dall’intersezione delle tre aree la quota di persone con competenze basse o assenti arriva al 26%, rispetto al 18% della media Ocse, percentuale che ci pone a un quarto posto non invidiabile. Solo Cile, Portogallo e Polonia fanno peggio di noi.
Sono molteplici le cause che possono spiegare la nostra collocazione nelle ultime posizioni, così come il livello di preparazione nelle tre macro aree subisce variazioni a secondo della fascia di popolazione presa in esame. Tra i giovani i punteggi registrati sono più alti, anche se inferiore ai paesi Ocse, e decrescono con l’aumentare dell’età. In tutto questo l’Italia sta attraversando un declino demografico, la carenza di nuova manodopera che impone ai lavoratori di aumentare la loro permanenza nel mercato del lavoro ritardando l’età della pensione. Ci sono poi differenziazioni legate al titolo di studio. Più è alto più alti sono i punteggi. Così la bassa performance del nostro paese non è unicamente imputabile al fatto che i nostri laureati raggiungono un livello più basso nelle tre aree rispetto ai colleghi degli altri paese Ocse ma anche al fatto che paghiamo il prezzo di una basse percentuale di popolazione, 20%, con formazione terziaria. A incidere c’è anche il genere. Tanto in Italia che nel resto della zona Ocse le donne hanno un leggere vantaggio nella literacy, mentre nelle numeracy il gender gap si fa sentire con maggior forza, anche per il fatto che le laureate italiane in discipline STEM sono solo il 31,5% rispetto al 68,5% dei laureati.
“Uno dei dati più allarmanti è che a distanza di un decennio, tra la prima e la seconda indagine Piaac, pur aumentando la popolazione laureata non si è registrata una crescita significativa nelle tre aree da parte dell’Italia – ha spiegato Glenda Quintini, economista dell’Ocse – è questo incide negativamente sulla capacità competitiva del tessuto economico. Il basso ricorso alla formazione continua non è solo legato a un tema di finanziamenti ma anche e soprattutto di tempo e di conciliazione per i lavoratori”.
Venendo ai numeri di Fondoprofessioni, nel 2024 sono state 3.781 le imprese che hanno aderito alla formazione continua e 14.114 le persone. Per quanto riguarda la composizione dell’offerta formativa per area tematica il 25% dei corsi ha riguardato la salute e la sicurezza, seguiti da quelli per la fiscalità e la contabilità e per le competenze tecnico-scientifiche, rispettivamente con il 13,8% e il 12,2%. Mentre se si guarda alla tipologia di offerta formativa erogata tramite bandi il primo posto è occupato dalle competenze tecnico-scientifiche, con il 16,6%, seguito da comunicazione, vendita e marketing con il 14,7%. Lo stesso primato si ritrova se si analizza la formazione in base al numero di ore suddivise per area tematica.
Il Report racchiude anche una serie di indagini rivolte sia a datori di lavoro che ai dipendenti. I primi sostengono che gli ostacoli principali per accedere alla formazione siano da indentificare con la complessità nell’individuare le occasioni (21,8%) e la difficoltà nel conciliare la formazione con gli orari di lavoro (14,9%). Inoltre il 65% dei titolari di studi professionali afferma che il valore aggiunto dei programmi formativi sia da ricercare nell’aggiornamento delle competenze che il personale già possiede, mentre per il 55% nell’acquisizione di nuove. E ancora il 58% sostiene che sia la fascia tra i 25 e i 34 anni ad avere maggior bisogno di essere formata.
Dall’altra parte del tavolo, quasi il 73% dei dipendenti ha risposto di non aver seguito programmi formativi perché non proposti dal proprio datore. Inoltre l’86% del campione riconosce l’utilità di partecipare alla formazione per essere a conoscenza delle più recenti novità del settore nel quale opera. Una parte minoritaria, pari al 14%, non riconosce invece questa utilità. I motivi sono di riscontrare nella mancanza di tempo, nell’essere ormai vicini alla quiescenza o nel fatto che credono che le skills acquisite durante la vita professionale siano più che sufficienti. I motivi principali che spingono i lavoratori a formarsi sono il possesso di nuove capacità, per il 56%, mentre il 43,2% lo fa per assolvere a un obbligo di legge.
Per il presidente dell’Inapp, Natale Forlani, “è necessario arrivare a un patto per le competenze che metta al centro la risorsa umana. Se questa manca le imprese non investono”. Secondo Maria Grazia Gabrielli, segretaria confederale della Cgil, “la situazione necessità di un’azione di sistema, non solo per innalzare la qualità della formazione ma anche quella del mercato del lavoro. Con la contrattazione dobbiamo arrivare a una certificazione della competenze”. “La formazione – ha spiegato Anna Trovò – responsabile promozione e gestione bilateralità della Cisl – è un significativo investimento che ricade non solo sulla singola persona ma sull’intera collettività”. E sul fronte risorse “è necessario alzare la soglia dello 0,30 senza però accrescere il costo del lavoro – ha spiegato Ivana Veronese, segretaria confederale Uil -. Allo stesso modo dobbiamo essere capaci di chiedere una parte, il 10-15%, del prossimo fondo sociale europeo. Ma per questo non servono solo sindacati e imprese, occorre l’appoggio del governo”. Infine il presidente di Confprofessioni, Marco Natali, ha posto la necessità di una “formazione continua non solo per i lavoratori ma anche per i dirigenti”.
Tommaso Nutarelli