L’azienda intima il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ad una dipendente con mansioni di centralinista, perché con l’introduzione del sistema automatico di risposta telefonica le attività di smistamento delle telefonate ad essa assegnate non erano più proficuamente utilizzabili. Le rimanenti mansioni, che la dipendente svolgeva, di carattere residuale e marginale, ben potevano essere ridistribuite all’interno dell’ufficio con assegnazione al personale rimasto in forza.
Il tribunale di Roma ha dichiarato il licenziamento illegittimo mentre la Corte di Appello, riformando la sentenza, lo ha dichiarato legittimo.
La Corte di Appello di Roma ha riformato la sentenza del tribunale perché la soppressione del posto di lavoro da parte dell’azienda era giustificata essendoci stata una modifica organizzativa scaturita da un’innovazione tecnologica.
La lavoratrice, per la Corte di Appello, benché ne avesse l’onere, non aveva provveduto nelle sue difese ad indicare nell’ambito della struttura aziendale i posti di lavoro in cui avrebbe potuto essere utilmente adibita “ponendo in tal modo la parte datoriale nella condizione di poter dimostrare concretamente per quale motivo l’inserimento del lavoratore nelle posizioni lavorative evidenziate non era praticabile”. Non avendo la difesa della lavoratrice provveduto ad assolvere questo specifico obbligo, la Corte di Appello ha ritenuto provata la impossibilità del datore di lavoro di utilizzare l’attività lavorativa della dipendente in altro settore con mansioni equivalenti.
La dipendente soccombente ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando che la Corte di Appello avesse erroneamente ripartito gli oneri di allegazione e prova del repêchage, imponendo alla lavoratrice un onere di allegazione non dovuto per esplicita previsione di legge e per costante giurisprudenza della stessa Suprema Corte.
La Corte di Cassazione ha accolto il motivo di doglianza della lavoratrice con la motivazione che riportiamo:
” L’affermazione dei giudici d’Appello secondo cui incomberebbe sul lavoratore un onere di allegazione circa “l’esistenza, nell’ambito della struttura aziendale, di posti di lavoro in cui potrebbe essere utilmente adibito” contrasta con una oramai consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili ; parimenti, la sentenza impugnata mostra di ritenere come riportato nello storico della lite – che l’onere di prova l’impossibilità di ricollocare il lavoratore da licenziare sia limitato alla possibilità che quest’ultimo possa svolgere mansioni comunque equivalenti a quelle precedentemente espletate, trascurando che, per condivisa giurisprudenza di questa Corte, l’indagine va estesa anche all’impossibilità di svolgere mansioni anche inferiori; invero, sin da Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998, è stato così sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; l’arresto riposa sull’assunto razionale dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto; il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, È stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore; È stato, così, affermato che il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore; la sentenza impugnata sulla violazione dell’obbligo di repêchage non si è attenuta ai richiamati principi, per cui, respinti i primi due motivi di ricorso, devono essere accolti gli altri, con cassazione della pronuncia in relazione alle censure ritenute fondate e rinvio alla Corte indicata in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, regolando anche le spese del giudizio di legittimità.” Sentenza Corte di cassazione, sezione lavoro n. 2739, del 30 gennaio 2024.
La Cassazione ha così rimandato le parti avanti la Corte di Appello di Roma, con diversa composizione collegiale, che adesso dovrà riesaminare nuovamente i fatti relativi al repêchage applicando, però, i principi di diritto affermati della Corte suprema di Cassazione e non quelli fallacemente assunti dalla riformata sentenza della Corte di Appello.
Biagio Cartillone