Gli impiegati, in giacca e cravatta, di qua, nella palazzina degli uffici. Gli operai, in tuta, di lá, nei capannoni delle catene di montaggio. Una divaricazione netta, implacabile, quasi brutale, dove le differenze di topografia e di abbigliamento riassumevano una distinzione economica, sociale, culturale, politica, anche psicologica. In una parola, di classe. Quel mondo non c’è più. Ma, sia pure sfumata e ammorbidita, l’ennesima divisione fra lavoratori più o meno qualificati che ci presenta oggi l’universo del lavoro è, ancora una volta, una divisione esistenziale. Fra chi prende il tram, va in ufficio, timbra il cartellino e ne sbuca fuori otto ore dopo. E chi resta a casa, in pantofole, il cane ai piedi, il figlio a portata d’orecchio. È presto per afferrare tutte le implicazioni sociali, psicologiche, produttive, anche urbanistiche dello smart working. Ma il fenomeno scatenato dalla pandemia e dai lockdown è un processo di massa e globale che costituisce, di fatto, il più grosso mutamento nelle condizioni di lavoro, da molto tempo a questa parte. La rivoluzione industriale, con il passaggio dai campi alle fabbriche e, poi, l’avanzata dei servizi, con il trasloco dalle fabbriche agli uffici hanno segnato rivoluzioni molto più vaste e profonde. Ma si sono sviluppate nell’arco di decenni. Qui, un radicale mutamento di prospettiva, sia per i lavoratori che per le aziende, è esploso nel giro di settimane. E ora? Dati e sondaggi dicono due cose. Primo, è un mutamento mondiale, anche se interessa, in prima battuta, soprattutto lavoratori con titoli di studio elevati. Secondo, è qui per restare: lo dicono sia i lavoratori che le aziende.
In base ad una recente ricerca, condotta in 27 paesi (in pratica quelli dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati, ovvero i più ricchi) fra fine ’21 e inizio ’22, lo smart working era dilagato ovunque, dalla Norvegia alla Malaysia, al di là di quarantene e lockdown. In media, i lavoratori interessati operavano da casa un giorno e mezzo sui cinque della settimana lavorativa. A quanto pare, è un compromesso fra casa e ufficio che sposa le diverse esigenze. Perché quasi tutti i paesi si ritrovano lì intorno. L’Italia è esattamente nella media, gli altri paesi della Unione europea se ne discostano poco. La Gran Bretagna arriva a 2, anche sopra gli Usa.
Il punto chiave è che chi sbarca nello smart working non ne esce più. O, almeno, non vuole uscirne e tornare ad orari e condizioni di lavoro precedenti. Un quarto degli interessati dichiara di essere pronto anche a licenziarsi e cercare un altro posto, pur di mantenere la flessibilità, la comodità, la libertà che gli dà lavorare da casa. La percentuale arriva al 40 per cento negli Stati Uniti.
Del resto, forse non c’è motivo di tornare indietro. Anche per le aziende. I conti si potranno fare solo più avanti, ma, per il momento, gli smart workers dichiarano di aver scoperto, spesso con sorpresa, che, da casa, sono più produttivi. Solo il 12 per cento circa si è trovato peggio e solo il 30 per cento non ha riscontrato differenze. Il resto, ben più della metà, ha registrato una performance lavorativa superiore a quello che si aspettava, quando metteva in conto attrezzature e distrazioni. Gli italiani sono fra i più positivi, con una differenza di otto punti a favore di chi è convinto di aver lavorato meglio.
Barano? Non sembrerebbe, vista la risposta delle aziende. Più i lavoratori si dicono soddisfatti della loro prestazione, più le loro aziende puntano sullo smart working fino ad una differenza anche di 1,3 giorni lavorativi a casa in più nei programmi di stabilizzazione dello smart working futuro.
Come regola, i programmi futuri sono, comunque, più moderati. In media, le aziende hanno messo in conto, per ora, 0,7 giorni di lavoro a casa per settimana, nell’immediato futuro. In Italia, anche meno, non più di mezza giornata. Ma la situazione è fluida e in continuo mutamento. Bastano gli aneddoti che vengono dal mondo degli affitti commerciali, con il numero crescente di aziende che si prepara a restringere gli spazi lavorativi, per concludere che il punto di equilibrio è ancora lontano.
Maurizio Ricci