Essere anarchici in Giappone equivale a propagandare il nudismo tra gli eschimesi. Se esiste una nazione immune alla totale libertà, è proprio quella illuminata dal Sol Levante. Il rispetto delle gerarchie, delle tradizioni, del potere costituito sono le fondamenta di un Paese che fino al 1945 ha creduto all’origine divina dell’Imperatore e che ancora oggi fa dell’annullamento di ogni identità personale nel magma di un bene supremo il punto di forza per una perenne sfida al mondo intero. Eppure, proprio in queste isole, soprattutto nel periodo tra il 1903 e il 1937, è fiorita una tendenza politico-culturale, repressa nel sangue, contro l’oppressione rapace e spietata dello Stato feudale e militarista.
A Proudhon bastarono il prefisso privativo an e la parola greca archìa, comando, per battezzare l’ideale libertario. Ai nipponici servono cinque segni ideografici al fine di comporre l’espressione Museihushugi e indicare così il corpo di dottrine che contestano qualsivoglia sistema autoritario. Lo spagnolo Victor Garcìa ha dedicato un bel libro a questa “storia di un movimento di puri, di mistici e di martiri, il cui corrispondente difficilmente potremmo trovare in altre coordinate geografiche”. Scelte che erano una sicura condanna. L’elenco delle vittime è lungo anche se da noi i loro nomi sono sconosciuti, come quello di Sakae Osugi, assassinato assieme alla compagna Noe Itoo e al nipotino Soichi Tadibana, di sette anni, il 16 settembre 1923.
L’originalità di questa vicenda non sta solo nella feroce repressione, bensì anche negli ideali professati. Perché gli anarchici giapponesi, accusati di inesistenti complotti e di crimini mai commessi, non erano bombaroli, propugnatori di atti terroristici, ma apostoli del pacifismo, dell’eguaglianza, della solidarietà, valori contrapposti alla crudele mentalità guerrafondaia dell’Impero. Le loro idee erano intrise di buddismo zen e di utopie socialiste. Mettevano sullo stesso piano “un gatto, un cane, un matto, un falegname, un rikisha (chi spingeva la portantina)”. Così teorizzava Tsomin Nakae.
Visionari. Destinati a finire in carcere o impiccati. Non demordevano, sebbene consci di quanto siano irrealizzabili i sogni. Imperterriti, li spingevano avanti, non sentendosi sconfitti quando rotolavano indietro. Come faceva Sisifo con il suo macigno. Aveva sfidato gli Dei, incatenando la Morte, ed era stato condannato alla fatica eterna. L’eroe dell’assurdo. Costretto a ripetere l’inane sforzo pur sapendo che si sarebbe sempre ritrovato ai piedi della montagna. Eppure, osservava Albert Camus, capace di accettare il proprio destino e quindi di diventarne il padrone: “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”.
Ed ecco la conclusione del grande scrittore: “Bisogna immaginare Sisifo felice”. Lui e, aggiungiamo noi, gli anarchici giapponesi.
Ma se è così, se la vera forza sta nell’accettare l’ineluttabilità della vita senza mai rinunciare alla propria dignità e ai propri obiettivi, non esistono cause inutili o perse in partenza.
Una società migliore, dopo la Pandemia, è possibile. Altrimenti diventerà facile convertire al nudismo gli eschimesi perché i ghiacciai si scioglieranno.
Marco Cianca