Qualche volta anche il Partito democratico scopre di essere “socialmente utile”. E’ successo l’altro giorno quando il ministro del lavoro Andrea Orlando ha tirato fuori dal cassetto – dove era rimasta sepolta da diversi anni – la questione salariale, proponendo alle imprese un patto molto semplice: aiuti di Stato a chi aumenta i salari. Non l’avesse mai detto, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha reagito come una furia, accusando Orlando di ricattare le aziende: “E’ impensabile che, con l’aumento dei costi dell’energia e delle materie prima, noi possiamo aumentare i salari”. Il segretario del Pd, Enrico Letta, gli ha risposto a stretto giro di posta e con toni altrettanto duri: “Il linguaggio di Bonomi è inaccettabile, rischiamo che in autunno scoppi un caos sociale se non si interviene rapidamente per fermare la recessione. Serve una manovra shock di almeno 15 miliardi, con una contribuzione che abbassi il cuneo fiscale sui salari e metta più soldi in tasca ai lavoratori”.
Ma al di là dello scontro tra democratici e industriali, scontro che alla fine dovrà essere gestito più dai sindacati che non dai partiti, l’aspetto politico della questione si riflette immediatamente su quel che potrebbe – o dovrebbe – succedere nel mondo del centrosinistra italiano, da oggi fino alle elezioni politiche del prossimo anno. In altre parole, è possibile che le forze politiche che si dichiarano progressiste (o qualcosa del genere) possano trovare un’unità di intenti, politica ed elettorale, a partire dalla questione sociale, di cui l’aspetto dei salari è ovviamente una componente fondamentale? Perché è proprio dalla risposta a questa domanda che può dipendere l’esito dell’appuntamento elettorale degli italiani.
Parafrasando un vecchio e bellissimo film di Ettore Scola, riusciranno i nostri eroi a ritrovare quell’unità misteriosamente scomparsa? Ovvero, riusciranno i democratici di Letta, la sinistra italiana di Fratoianni e Vendola, l’Articolo uno di Bersani e Speranza, i Verdi di Bonelli e i tanti pezzetti sparsi della sinistra italiana a mettersi finalmente insieme per cercare di vincere le elezioni politiche nel 2023? E, ammesso che ci riescano, sarà possibile unirsi ai Cinquestelle guidati da Conte? Altrimenti, se tutto questo non avverrà, la vittoria andrà sicuramente alla destra di Meloni, Salvini e Berlusconi, che pur essendo al momento divisi e litigiosi, alla fine dei giochi ritroveranno certamente un modus vivendi, anzi “vincendi”.
Ecco, questa è la scommessa che devono giocare i progressisti. In fondo non sarebbe neanche troppo difficile, basterebbe trovare una base comune, pochi punti fondamentali per potersi presentare agli elettori con un programma, anzi un progetto vincente. Basato appunto sulla questione sociale, che poi è quella che riguarda direttamente i cittadini. Il voto francese per Marine Le Pen (più del 40 per cento) ci dice che molti elettori di sinistra hanno votato per lei, nonostante la sua origine fascistoide e il suo sentimento putiniano. E l’hanno fatto perché lei ha insistito proprio sul disagio sociale, sulla povertà che avanza, sui salari bassi, sui diritti dei lavoratori. Esattamente come da qualche anno stanno facendo in Italia Meloni e Salvini, tanto che insieme raggiungono nei sondaggi quasi il 40 per cento. Se poi ci aggiungiamo quel che resta di Forza Italia e le schegge centriste ex berlusconiane, eccoci alla soglia del 50 per cento.
Gli altri, cioè il centrosinistra, se pure sommiamo i consensi che attualmente gli vengono attribuiti, si ferma intorno al 40 per cento. Dunque, la scommessa è tutta nel gioco del recupero, cioè nel tentativo di riprendersi quei voti perduti in questi ultimi anni e finiti a destra. Quando Massimo D’Alema disse che la Lega era una costola del Movimento operaio suscitò scandalo e polemiche a non finire, ma non aveva tutti i torti: intendeva dire che molti voti operai si erano trasferiti da sinistra al partito allora guidato da Umberto Bossi. Ecco, nonostante siano passati più di vent’anni, quei voti non sono ancora tornati all’ovile, semmai si sono parzialmente spostati da Salvini verso Meloni, ma sempre a destra sono rimasti.
Evidentemente le politiche messe in campo dal centrosinistra in questi decenni non hanno convinto i suoi ex elettori, soprattutto quei milioni di lavoratori dipendenti che si sono ritrovati sempre più poveri e sempre meno difesi. Così come il nuovo mondo dei lavoratori autonomi, le famose partite Iva: lì dentro il centrosinistra e i sindacati non risultano pervenuti. Forse però non è tardi per buttarsi nella mischia, come diceva John Belushi in “Animal House”, “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. Ora, che i leader del centrosinistra siano dei duri è tutto da dimostrare, tuttavia “quando non hai niente, non hai niente da perdere” (Bob Dylan in “Like a rolling stone”).
In fondo, non servirebbe un genio per capire che i voti bisogna cercarli in quel mondo, smettendo di pensare che “i voti si prendono al centro”. Questo fantomatico luogo politico non esiste quando si tratta del futuro delle persone, dei loro salari, delle bollette da pagare, di un lavoro decente, di diritti da difendere, di un ambiente respirabile, insomma di interessi materiali (lasciamo perdere quelli ideali che ormai…). E allora?
Allora, se fossi un elettore medio del centrosinistra mi aspetterei che Letta, Conte, Fratoianni, Vendola, Bersani, Speranza, Bonelli mettessero in piedi un’alleanza politica ed elettorale (quale che sia la legge che regolerà il voto), basata su pochi punti qualificanti e che possano convincere quei due o tre milioni di elettori (cioè il 3-4 per cento) a guardare verso sinistra. Tutto sommato, basterebbe poco, un piccolo sforzo per mettere da parte le divisioni (per esempio quelle sulla guerra in corso, che si spera finisca entro quest’anno) e dare valore ai punti comuni. A condizione che questi ultimi esistano ancora.
Riccardo Barenghi