Giorgio Cremaschi
Sono d’accordo con Pier Paolo Baretta: i fatti impongono una discontinuità rispetto alla politica sindacale degli ultimi dieci anni. Ritengo però che, rispetto agli scenari e alle alternative possibili che delinea il segretario della Cisl ve ne sia anche un’altra, che a me pare molto più convincente. Secondo Baretta, dopo la vittoria del centro destra due linee politiche si confrontano nel sindacalismo confederale. Una è quella, attribuita alla Cgil, del neo laburismo, del sindacato di schieramento che si appoggia a, e appoggia lo schieramento di centro sinistra. L’altra è quella del sindacato concertativo che punta ad un nuovo patto sociale. In realtà le recenti dichiarazioni del segretario della Cgil, a favore di un ‘modello Aznar’ nella concertazione italiana, indicano che le differenze non sono così nette tra le due posizioni. Anche la Cisl ha vissuto una sbandata per la politica, e il fatto che l’esperimento di D’Antoni sia sostanzialmente fallito non cancella le spinte che a favore di esso c’erano, prima delle elezioni, in quel sindacato. La forte presenza istituzionale del sindacato italiano comporta una naturale tentazione per i suoi gruppi dirigenti verso l’agone politico. Tuttavia a me pare che entrambe le alternative, sindacato neo laburista sindacato concertativo, siano la riproposizione del passato, mentre il futuro richiederebbe tutt’altra strada. Non, l’espressione non ci piace, una terza via tra le due, ma proprio un’altra direzione di marcia: quella della ricostruzione dell’autonomia contrattuale e rivendicativa del movimento sindacale.
La concertazione degli anni 90 ha esaurito la sua spinta propulsiva. Questo lo riconoscono in molti, non solo coloro che, come il sottoscritto, non l’hanno mai condivisa. Essa aveva come obiettivo fondamentale raggiungere quel risanamento del bilancio pubblico e quei margini di profitto delle imprese tali da permettere l’entrata dell’Italia nell’Europa della moneta unica. Io ritengo che il costo sociale e contrattuale pagato dai lavoratori per quegli obiettivi sia stato troppo alto, tuttavia riconosco che quegli obiettivi avevano forza e credibilità.
Il fatto è che, una volta realizzato quello scopo, il sistema concertativo ha perso ogni cemento unificante e si è ridotto a puro galateo , qualche volta nemmeno a questo, nelle relazioni tra le parti. La politica dei redditi degli anni ’90, i due livelli di contrattazione, quello nazionale legato all’inflazione programmata, quello aziendale a produttività, qualità, redditività, non possono essere considerati elementi costituenti di qualsiasi stagione contrattuale.
Nel passato la politica dei redditi dichiarava come obiettivo il mantenimento delle stesse proporzioni tra reddito da capitale e reddito da lavoro. La politica dei redditi degli anni ’90 ha invece favorito il profitto di impresa rispetto al salario, riducendo poderosamente il peso di quest’ultimo sul reddito nazionale. Negli anni ’70 l’obiettivo condiviso da tutte le organizzazioni sindacali era quello di una redistribuzione del reddito dai profitti ai salari. Insomma si sono condotte in Italia almeno tre politiche dei redditi, una che puntava al riequilibrio tra profitti e salari a favore dei secondi, una che cercava di mantenere inalterati i rapporti tra i due fattori, un’altra che ha cercato soprattutto di tutelare il potere d’acquisto, dando per scontata la crescita dei profitti. Chi ha detto che quest’ultima impostazione, che è quella seguita dalle organizzazioni sindacali negli anni 90, e che peraltro non ha raggiunto i suoi obiettivi, debba diventare costitutiva per sempre delle politiche sindacali?
A me pare che l’acuirsi delle divisioni e delle contrapposizioni tra sindacati confederali derivi proprio dall’assenza di questa discussione strategica. Che viene rimpiazzata da una continua competizione sul quotidiano.
Nella storia del sindacato italiano i processi unitari sono sempre stati accompagnati da una discussione profonda sulle strategie e sulle forme dell’iniziativa sindacale. Se questa manca, viene meno proprio il terreno costituente. Già alla fine dell’altra stagione congressuale si parlò di una stagione costituente per l’unità sindacale. Il risultato è la crisi della stessa unità di azione. Se si vuole rilanciare un confronto unitario che superi le contrapposizioni attuali, bisogna affrontare i nodi di fondo della crisi sindacale.
Prima di tutto bisogna pensare al sindacato italiano nel contesto della globalizzazione. Le politiche concertative sono in crisi perché, dopo il risanamento, non vi sono più obiettivi strategici comuni e condivisibili tra sistema delle imprese e organizzazioni sindacali. Con il programma di Parma della Confindustria non è possibile una concertazione, ma solo una stagione di conflitto.
Si può discutere sullo sbocco di questa stagione, se essa debba rinunciare a nuovi assetti di democrazia industriale e di democrazia economica, o se questi possano essere gli obiettivi finali di una riconquista di potere contrattuale del mondo del lavoro. Ma non si può negare che una stagione conflittuale sia la premessa per ogni ripresa sindacale.
In secondo luogo bisogna pensare alla frantumazione presente del mondo del lavoro. Da questo punto di vista sono convinto che non solo la dimensione contrattuale nazionale non possa essere indebolita, ma che essa debba riconquistare poteri e funzioni, a partire dal salario, persi nel corso degli anni ’90.
In terzo luogo ogni confronto unitario comporta un’idea sulla partecipazione dei lavoratori e degli iscritti alle scelte sindacali. Negli anni ’70 l’unità sindacale non si è realizzata per paura dell’egemonia Cgil. Si potrebbe dire che negli anni ’90 ciò non è accaduto perché la Cisl ha considerato il suo modello l’unico praticabile. Se si vuole trovare una soluzione di prospettiva, occorre trovare un incontro tra le forme della democrazia e dell’intesa tra organizzazioni, nelle quali la mediazione ed il riconoscimento di tutti sono elementi costituenti, e il momento di verifica democratica delle decisioni, nel quale i lavoratori e gli iscritti si esprimono secondo il principio: una testa un voto. Ormai l’esperienza ha insegnato che senza queste due gambe l’unità non marcia e che tutte le volte che si è cercato di camminare con una sola delle due, essa è precipitata nel nulla.
Infine c’è una questione di impianto culturale. Oggi in tutto il sindacalismo europeo prevale largamente un impostazione che potremmo chiamare moderatamente riformista. In tanti sindacati del resto del mondo sta invece emergendo una forte componente antagonistica e conflittuale, che si esprime in maniera diversa a seconda delle tradizioni dei differenti paesi, ma che si riconosce in parole d’ordine comuni. Dalla lotta alla globalizzazione alla critica alla flessibilità, alla contestazione della precarizzazione; dalla sindacalizzazione intesa come estensione dei diritti dai più forti ai più deboli, al conflitto sull’organizzazione del lavoro e contro le politiche paternalistiche d’impresa. Se si vuole ragionare di una dimensione unitaria del sindacato italiano, bisogna pensare al fatto che questa componente, che c’è anche da noi, entri a far parte a pieno titolo della fase costituente.
Siamo disposti ad una discussione così coraggiosa? Allo stato attuale non credo, tuttavia ritengo che gli eventi politici e sociali in corso la renderanno sempre più obbligata.