Si prospetta in difficile salita il percorso che potrebbe portare governo, sindacati e imprenditori verso un patto sociale. Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil, non fa mistero, almeno nei circoli più ristretti, della sua distanza rispetto a un grande accordo. Se dobbiamo trattare con governo e imprenditori, questo il suo pensiero, almeno che si tratti un argomento alla volta. Non esclude che alla fine si possa anche arrivare a una sorta di protocollo finale, ma non vuole che questo sia l’obiettivo. Non vuole legarsi le mani, vuole essere libero di esprimersi e comportarsi come meglio crede. Uno stato di animo che denota una grande distanza dalla politica e dai partiti politici. Il che non meraviglia pensando che solo in dicembre la Cgil, con accanto solo la Uil, non ha esitato nel proclamare uno sciopero generale, in quanto tale atto strettamente politico, diretto contro il governo e i partiti che lo sostengono.
Eppure non siamo più in tempi di disintermediazione, quando la politica voleva saltare la rappresentanza del sindacato e poi lo ha fatto. Ma appunto la distanza verso il mondo della politica cresce. Non è peraltro la prima volta che il sindacato cerca di sganciarsi dal mondo politico, assumendo una sua posizione. Il ricordo corre subito a Claudio Sabattini, il dirigente della Fiom che dichiarò con forza l’indipendenza del sindacato dalla politica e lo fece proprio poco dopo il grande accordo del 1993, che pure fu il momento di maggiore vicinanza tra sindacato e politica. Pur in quel momento di grande unità di intenti, Sabattini credette opportuno ristabilire confini precisi che lasciassero spazio all’azione del sindacato, anche sui grandi temi sociali. E non è un caso che Landini sia cresciuto proprio nell’entourage più ristretto di Sabattini.
Ma, se si parla di autonomia del sindacato, come non ricordare Pierre Carniti, il grande sindacalista della Cisl che per primo declinò l’esigenza di trasformare il sindacato in un soggetto politico e arrivò fino alla creazione di una forza materiale della rappresentanza sindacale con l’istituzione del prelievo dello 0,50% sul monte salari? Erano altri tempi, è vero, c’erano soprattutto i grandi partiti massa, Dc e Pci in primis, che si assumevano la rappresentanza quanto meno economica dei lavoratori, e il sindacato, che non voleva perdere terreno, ma al contrario acquistare più forza, cercava la sua autonomia d’azione senza paura delle contrapposizioni, anche forti e divisive come fu il referendum del 1985 sui tre punti di scala mobile.
Il sindacato non rifiutava la politica, semmai se ne serviva, non c’era vero allontanamento. Poi però i rapporti tra questi due mondi si sono progressivamente deteriorati, le distanze si sono fatte sempre più consistenti. Il sindacato avvertiva la mancanza di una forza politica attenta alle ragioni del lavoro. Nessuno cercava, come decenni prima, il partito amico, ma certamente avrebbe fatto piacere vedere forze politiche più attente alle esigenze del mondo del lavoro nel suo complesso. Anche per questo qualche anno fa Landini ebbe la tentazione della coalizione sociale, che non era la ricerca di un partito vicino, ma la creazione di una rete di realtà sociali che rafforzasse l’azione del sindacato svincolandolo così dalla stretta della politica.
La grande crisi del 2008, come ha rilevato Mimmo Carrieri in un webinar che la Bocconi ha tenuto proprio sulla realtà dei rapporti tra politica e sindacati, ha aggravato una situazione già difficile. Il lavoro si è impoverito, la paura dei lavoratori di essere lasciati soli con i propri problemi è cresciuta, la distanza verso i partiti si è fatta evidente, anche quando gli italiani sono stati chiamati alle urne. La risposta della politica con Renzi non è stata all’altezza, soprattutto non è piaciuta al sindacato la pretesa di saltare la rappresentanza del sindacato rivolgendosi direttamente ai lavoratori, come è stato fatto con l’elargizione degli 80 euro al di fuori di qualsiasi tipo di contrattazione. C’erano tutte le premesse per uno scontro duro, come poi è stato con il referendum istituzionale, che ha visto Renzi perdere, ma non il sindacato vincere. È stata una sconfitta per tutti, come del resto era stato nel referendum del 1985, che vide la Cisl vincere, ma il sindacato tutto perdere.
Comprensibili allora le resistenze della Cgil, che non si fida dei partiti dai quali ha ricevuto quanto meno indifferenza. La pandemia non se ne è andata, l’economia torna a inciampare, l’inflazione è risorta, la guerra in Ucraina aggrava tutto. I motivi di un irrigidimento ci sono tutti, la cautela è quanto meno obbligata. Ma Draghi non è un politico, non ha un partito dietro, si appoggia a un gruppo di partiti che però sono tutto meno che uniti e solo la sua capacità riesce a farlo governare, peraltro con successo. E al sindacato Draghi offre una mano, al sindacato chiede una collaborazione vera. La Cgil, con la Uil, ha riconosciuto a dicembre, proprio in occasione dello sciopero generale, le buone ragioni del presidente del Consiglio e per questo la forza dello sciopero è stata diretta soprattutto verso i partiti che erano sordi anche alle richieste di Palazzo Chigi di guardare alle esigenze del lavoro. Ma di fronte alla richiesta di una trattativa ad ampio raggio, che porti a un grande accordo, il segretario della Cgil si tira indietro, quanto meno tentenna. Comprensibile, chi si è scottato al fuoco si fa cauto. Ma la posta in gioco è alta, non ci sono solo i risvolti materiali che verrebbero ai lavoratori da un accordo che tocchi tutti i problemi aperti nel mondo del lavoro, c’è la possibilità di farsi davvero soggetto politico, di essere classe dirigente, in quanto tale capace di affrontare e magari risolvere quei problemi. Forse vale davvero la pena di lasciarsi tentare.
Massimo Mascini