“Crisi è quel momento in cui il vecchio muore ed il nuovo stenta a nascere”. Sono parole di Antonio Gramsci e come talvolta accade sembrano scritte per questi nostri tempi difficili e di svolta.
Il mondo è in subbuglio, tradizioni politiche e sociali salutano, altre presenze cercano di imporsi. In Francia, Germania, prima in Olanda, le sirene populiste non sfondano. Macron all’Eliseo annuncia una nuova Europa da costruire, la Merkel si prepara a governare ancora. Siamo in bilico fra una stagione nuova difficile da individuare ed una resa dei conti rinviata.
Ma le questioni al centro di questa crisi profonda nella quale i popoli europei continuano a vivere intanto finiscono per confondersi con gli effetti che essa continua a produrre: diseguaglianze che disegnano una scala sociale sempre più lunga, giovani senza un futuro stabile di lavoro, interi ceti sociali che si impoveriscono perdendo inoltre la loro identità di riferimento. Ed il nodo della sicurezza che aggiungere alla incertezza sul futuro la paura del presente.
Effetti a volte eclatanti ma tali comunque da sovrastare anche quel dinamismo che nelle nostre economie non si è spento ma va avanti sia pure a fari spenti. Una certa ripresa, nella quale purtroppo siamo il fanalino di coda, progressi incessanti sul piano dell’innovazione e una interdipendenza commerciale mondiale che velleità protezioniste possono scalfire ma non cancellare.
Lo scenario è assai più complicato di quel che fanno credere le istanze sovraniste a caccia di tutte le proteste da poter rappresentare. I loro successi solo parziali fanno però capire che questo limite viene colto e provoca diffidenza anche quando monta l’insofferenza per l’operato delle classi dirigenti.
Questo calderone di cambiamenti fa però anche delle “vittime”. Sono entrate in crisi le socialdemocrazie più forti nel Continente europeo per la loro sudditanza ai modelli liberisti, per la crisi fiscale che ha frantumato la rappresentanza sociale, per il declassamento economico e sociale di ampie fasce di ceto medio. Ma resta “solo” anche quel turboliberismo che prometteva successo e benessere infinito e che invece ha provocato l’accrescersi delle diseguaglianze, un rigorismo economico distruttivo ed odiato, l’emarginazione di valori essenziali in tempi di svolta come la solidarietà.
Se il nuovo stenta a crescere è anche per la difficoltà ad ancorare la politica ad una cultura di riferimento che vada oltre i fin troppo abbondanti slogan in circolazione. La politica in difficoltà allora cerca di offrire risposte sul piano dei diritti civili individuali e predicando innovazione. L’individuo e la rivoluzione tecnologica, anch’essa indirizzata verso un uso prevalentemente individuale. Un modo questo anche per ricacciare indietro le tesi populiste che saldano insieme leadership ristrette ad un popolo che non è più…popolo.
Questo contesto impone una riflessione per tutti, a partire dalle forze sociali, se si vuole far recuperare credibilità a progetti di società in grado di offrire soluzioni vere alle tante crisi nelle quale ci dibattiamo, cogliendo al tempo stesso le opportunità che pure ci sono.
Ed il primo terreno non può che essere quello della rappresentanza sociale. In questi mesi il sindacato ha dato buon prova su questo terreno. Assai migliore di una Confindustria che ha perso colpi come si è visto nella vicenda del rinnovo dei grandi contratti nazionali condotti a buon fine dalle categorie che hanno scalzato i “no” di principio, e che ora sono in grado di aprire nuovi orizzonti nelle relazioni industriali. Ma i problemi anche all’interno del movimento sindacale non mancano. E vanno affrontati per quel che sono. Intanto non è condivisibile l’orientamento che emerge da qualche tempo nella Cgil di cogliere l’occasione della crisi della sinistra per occupare quello spazio con una iniziativa di carattere politico e legislativo come si è visto. Proponendo questa azione come un argine agli stessi populismi perché in grado, si pensa, di coagulare disagio e protesta sociale. Tanto che tale scelta porta a ridurre l’interesse per uno sviluppo nel cammino unitario fra le tre confederazioni che non si osteggia ma non si valorizza. Questa direzione di marcia mi sembra perdente, in quanto non ha la forza né di contrastare le diseguaglianze né di far esercitare al sindacato un ruolo fondamentale nelle politiche economiche e del lavoro. Ma non porta lontano neppure la contrapposizione fra vecchio e nuovo che in altri settori sindacali, vedi nella Cisl, vuole essere la risposta alle accuse di conservatorismo rivolto alle confederazioni. E’ invece necessario avviare un percorso diverso, forti dei risultati conseguiti in questi mesi ma in grado di dotare il sindacato di una strategia di lungo periodo. Un solo esempio: i diritti da affermare sono solo quelli civili, oppure ci sono eccome anche quelli del lavoro? E come si declinano in una economia che sta subendo una mutazione profonda in tutti i suoi settori nessuno escluso? E se vogliamo condurre una battaglia efficace per accorciare le diseguaglianze non possiamo che indicare strategie economiche in grado di farlo, da quelle fiscali a ver politiche del lavoro. Ed ancora: se il problema è, e lo è, quello dell’inclusione dei giovani, dei cosiddetti millenials, non possiamo limitarci alla speranza di qualche incentivo che li taciti, ma dobbiamo impegnarci con coraggio a ricostruire pezzi importanti della nostra convivenza: scuola, welfare, ambiente, riqualificazione dei centri urbani.
In questo senso il ruolo contrattuale del sindacato diventa il motore di una nuova stagione di impegno più complessivo. Per trovare soluzioni, spingere la politica a rinnovarsi sul serio, mantenere saldo il rapporto con un mondo del lavoro che ha bisogno di partecipazione e non di antagonismi sterili. E può guardare avanti se sa che può contare su radici sindacali forti ed unitarie.