E’ divenuto un tema di dibattito e non è rimasto confinato soltanto nell’ambito dei rapporti economici e di lavoro, ma ha debordato in oscuri meandri esistenziali, come se la pandemia avesse dischiuso nuovi orizzonti di vita ai sopravvissuti, divenuti, da ora in poi, pellegrini volontari alla ricerca di nuovi stili di vita. Pare che sia un fenomeno di dimensione mondiale e che stimoli le migliori ‘’penne’’ – sempre alla ricerca di della notizia dell’uomo che morde il cane –ad approfondire le ragioni di un processo atteso, ma arrivato con caratteristiche invertite: erano attesi e temuti milioni di licenziamenti; si sono avute centinaia di migliaia di dimissioni. Per esperienza sappiamo che i media – se scoprono un argomento ficcante – non stanno a guardare se tocca uno, nessuno o centomila. È importante averlo scoperto per primi ed essersi tirati dietro che il celebre pifferaio anche le altre destate e i indaffaratissimi talk show. Ed è per questi motivi che io aspetto a dare una particolare rilevanza al fenomeno, anche perché, limitatamente all’Italia, 500 giorni di blocco dei licenziamenti ha inevitabilmente prodotto effetti in tutto il mercato del lavoro, a partire dalle assunzioni; ciò, mentre il superamento del divieto di licenziamento ha riportato la normalità. Siamo andati alla ricerca di dati e considerazioni elaborate da soggetti istituzionali, meno propensi a trarre conclusioni socio-esistenziali da processi determinatisi negli eventi eccezionali che abbiamo attraversato durante la pandemia. Vediamo così come affrontano il Ministro del Lavoro e la Banca d’Italia nella pubblicazione ‘’Il mercato del lavoro: dati e analisi’’ Le Comunicazioni obbligatorie N. 6 – novembre 2021.
Nel corso del 2021 – è scritto nella Nota – le dimissioni sono gradualmente aumentate superando, nella seconda metà dell’anno, i livelli registrati nel 2020. Molteplici fattori, relativi sia all’offerta sia alla domanda di lavoro, potrebbero spiegare tale incremento. Da una parte i lavoratori dipendenti potrebbero essere meno disponibili a lavorare alle condizioni prevalenti, anche per ridurre il rischio di contagio in una fase di progressivo ridimensionamento del ricorso al lavoro in remoto. Dall’altra è possibile che, grazie alla ripresa della domanda di lavoro, un numero crescente di persone occupate lasci la propria occupazione stabile per un’altra. In questo secondo caso le dimissioni da un lavoro a tempo indeterminato e le assunzioni, anch’esse a tempo indeterminato, dovrebbero registrare andamenti simili. La Figura A.a riporta l’evoluzione delle dimissioni1 e delle assunzioni a tempo indeterminato dal 2019, anche al netto di fattori stagionali. Il numero delle prime è diminuito marcatamente all’insorgenza della pandemia, ma dalla primavera del 2021 è risalito, assestandosi su valori lievemente superiori a quelli del 2019. Nei primi 10 mesi dell’anno sono state rilevate 777.000 cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40.000 in più rispetto a due anni prima. Il 90 per cento dell’incremento complessivo osservato è ascrivibile all’industria (36.000 dimissioni in più); nei servizi la crescita delle dimissioni, più contenuta, si è fortemente indebolita dalla fine dell’estate. L’eterogeneità settoriale si riflette anche in quella geografica: nel 2021 le separazioni volontarie sono aumentate nel Centro Nord; nel Mezzogiorno invece sono rimaste stazionarie. Complessivamente – prosegue la Nota – la dinamica delle dimissioni appare strettamente associata a quella della domanda di lavoro a tempo indeterminato, anche perché concentrata nei settori e nelle aree che dalla primavera del 2021 hanno maggiormente beneficiato della ripresa delle attivazioni di nuove posizioni di lavoro permanente. Per verificare ulteriormente l’ipotesi che le dimissioni possano essere in buona parte connesse con transizioni da un lavoro permanente a un altro, la Figura A.b riporta una stima della correlazione tra le due serie. Dalla fine del 2018 questo indicatore è significativamente aumentato, con un picco proprio durante la pandemia; nel 2021 si è assestato su livelli storicamente elevati, suggerendo che in un contesto di forte incertezza i lavoratori, più spesso che in passato, hanno verosimilmente rassegnato le dimissioni solo a fronte della prospettiva di un nuovo impiego. La serie storica delle dimissioni contiene tutte le separazioni da impieghi a tempo indeterminato richieste dal lavoratore: include pertanto, oltre alle dimissioni, anche i pensionamenti. Questi ultimi rappresentano tuttavia meno del 5 per cento del totale degli eventi.
La Nota del Lavoro e di Banca d’Italia ricava dai dati delle Comunicazioni obbligatorie tendenze che contraddicono i soliti piagnistei sul c.d. precariato. Tornano, infatti, lentamente ad aumentare le assunzioni a tempo indeterminato; rimane modesto il numero di licenziamenti. La creazione di posti di lavoro, tuttavia, continua a essere sostenuta soprattutto dai contratti a tempo determinato mentre il saldo complessivo delle posizioni permanenti dall’inizio dell’anno rimane all’incirca sugli stessi livelli del 2020. Tuttavia a settembre e ottobre sono emersi segnali di un primo lieve aumento delle assunzioni a tempo indeterminato (230mila nuovi contratti, in linea con gli andamenti del 2019; 55mila in più rispetto agli stessi mesi del 2020), a fronte, tuttavia, di un numero di trasformazioni che è ancora al di sotto dei livelli del 2019. Le cessazioni a tempo indeterminato sono state nel complesso modeste: in particolare, i licenziamenti sono rimasti su livelli contenuti anche in settembre e ottobre (59mila contratti cessati con questa causale, il 37 % in meno rispetto agli stessi mesi del 2019. Secondo i dati preliminari disponibili, nei primi quindici giorni di novembre si è rilevato invece un aumento dei licenziamenti nei settori in cui il blocco è scaduto il 31 ottobre (servizi e industria dell’abbigliamento, del tessile e delle calzature). La crescita, analogamente con quanto osservato dopo lo sblocco del 30 giugno in gran parte della manifattura e nelle costruzioni, potrebbe riflettere esuberi già previsti nei mesi precedenti. Nonostante tale aumento il tasso di licenziamento non si è discostato dai livelli precedenti la pandemia. Tali dinamiche hanno sostenuto la mobilità del mercato del lavoro, associandosi – come abbiamo visto prima – a un incremento del numero di dimissioni volontarie. Quanto all’occupazione femminile, la Nota evidenzia che, dopo la penalizzazione subita nella prima fase della pandemia anche per gli accresciuti carichi familiari, la dinamica ha gradualmente recuperato nel corso del 2021, soprattutto grazie a contratti di lavoro temporanei, molti dei quali sono scaduti nei mesi autunnali. Tra le donne oltre l’82% dei posti di lavoro creati nel 2021 erano a termine (72% tra gli uomini). Il lieve incremento del lavoro permanente ha invece favorito, seppur di poco, l’occupazione maschile: a settembre e ottobre le assunzioni a tempo indeterminato sono ritornate sui livelli pre-pandemici tra gli uomini, mentre tra le donne erano inferiori di oltre il 3% rispetto al 2019.
Giuliano Cazzola