Gli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori hanno provocato un vero e proprio terremoto nelle relazioni industriali non solo interne all’azienda, ma a livello nazionale. L’occasione della conta referendaria ha drammaticamente acuito le divisioni già presenti fra le diverse componenti del sindacato confederale, con una radicalizzazione delle opposte posizioni che non favorisce un confronto sereno e meno legato alle emergenze del contingente sull’ammodernamento della articolazione contrattuale.
In questo quadro dai contorni sfuocati, ma dalle tinte forti, si è sviluppato un chiassoso dibattito che – spesso invocando un messianico intervento politico – non ha saputo proporre molto di meglio della antica contrapposizione tra diritti dei lavoratori e ragioni dell’economia, così implicitamente chiamando a schierarsi dall’una o dall’altra parte. Un panorama che, ad oltre sessant’anni dalla promulgazione della Costituzione, riflette la fatica del nostro paese ad accettare l’idea che economia e diritti compongano le facce di una stessa medaglia e che gli articoli 39 e 40 hanno indicato proprio nelle relazioni industriali la via maestra per il miglior contemperamento possibile degli interessi contrapposti. Il problema vero è, allora, comprendere come gli equilibri contrattuali debbano essere reinterpretati alla luce della trasformazione economica conseguente al realizzarsi di un mercato delle merci e dei servizi libero dai confini nazionali.
La sovraesposizione mediatica della vicenda Fiat ha posto al centro della scena il conflitto fra contratto aziendale e contratto nazionale di categoria, ma ha fatto dimenticare che, nel mondo reale, lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva dal centro verso la periferia non nasce con Marchionne, avendo origini ben più profonde. Il sistema di relazioni sindacali basato sulla primazia del livello nazionale ha svolto un ruolo fondamentale negli anni della ricostruzione postbellica e del boom economico, ma è entrato in affanno con le prime severe crisi economiche degli anni settanta ed ha gravemente contribuito al processo di logoramento della rappresentatività e della stessa credibilità del sindacato in questi ultimi anni. Per uscire da quest’impasse, nella pratica quotidiana delle relazioni industriali lontana dai riflettori, la contrattazione di secondo livello ha assunto una funzione trainante nel processo di riorganizzazione del lavoro nelle imprese meglio strutturate e più innovative. I contratti collettivi aziendali hanno progressivamente allentato i vincoli formali del contratto nazionale tramite una azione che, per quanto episodica e priva di una regia unitaria, ha consentito alle imprese di apportare le modifiche e gli aggiustamenti necessari per stare al passo con l’evoluzione dei sistemi produttivi. Questa vera e propria rivoluzione contrattuale silenziosa si sta consumando fuori da un quadro di riferimento definito non solo e non tanto a livello legislativo ma, ciò che più stupisce, a livello di autonomia collettiva. Il protocollo interconfederale del 1993 sugli assetti contrattuali, fondato sul principio della intangibilità del ccnl ad opera del secondo livello di contrattazione, era stato superato dai fatti ben prima che Confindustria e le organizzazioni sindacali – con l’eccezione della Cgil – ne decretassero formalmente la fine con il protocollo del 2009 che, peraltro, sembra anch’esso precocemente diventato obsoleto per eccesso di centralismo. Nei fatti, le relazioni industriali avevano già metabolizzato un sistema in cui le regole generali dettate dal livello nazionale venivano, a vario titolo, derogate dal secondo livello.
A ben guardare, l’affermazione di un rapporto gerarchico tra fonti regolatrici e fonti derogatorie risponde più ad una petizione di principio che alla realtà. Più corretto sarebbe, infatti, riconoscere che esistono diversi livelli di regolazione dei rapporti di lavoro e che l’efficienza del sistema nel suo complesso passa attraverso la realizzazione di un efficace sistema di coordinamento fra tali livelli. Insomma, si dovrebbe abbandonare lo stesso concetto di deroga, riconoscendo pari dignità alle fonti contrattuali di secondo livello. Nel linguaggio sindacale le parole vengono talvolta caricate di impropri significati simbolici e, così, al termine “deroga” si è finito per attribuire un valore intrinsecamente negativo/peggiorativo, dando per assunto l’assioma secondo il quale tutti i diritti dei lavoratori debbano necessariamente essere consacrati al solo livello nazionale e che, conseguentemente, le modifiche introdotte a livello decentrato non possano che rappresentare un vulnus a tali diritti. Al contrario, riconoscere pari dignità ai diversi livelli contrattuali dovrebbe comportare anche una progressiva migrazione dei diritti verso le sedi più prossime ai lavoratori e, in particolare, alla sede aziendale.
E non è, forse, un caso che già l’addendum al contratto nazionale dei metalmeccanici siglato da Confindustria, Assistal, Fim e Uilm il 29 settembre 2010, abbia abbandonato il termine “deroghe” in favore del più neutro “intese modificative” per definire le nuove regole dettate dai contratti aziendali in materia e su istituti già disciplinati dal ccnl.
In un contesto così fluido non ci sarebbe da sorprendersi né da allarmarsi se, dopo Mirafiori, dovesse prevalere un novo assetto di relazioni sindacali rivitalizzato proprio dal decentramento contrattuale e da un ruolo più significativo del sindacato nelle scelte organizzative e strategiche dell’impresa.
Forse è davvero arrivato il momento di riconoscere che la storica primazia del contratto nazionale può e deve essere virtuosamente superata laddove si realizzi una rete contrattuale i cui diversi livelli non si negano, ma si coordinano allo scopo di regolare con maggiore equità ed efficienza gli equilibri fra i diritti dei lavoratori e le esigenze di riorganizzazione del lavoro.
Maurizio Del Conte