C’è viva attesa per l’esito del ricorso della Fiom contro l’accordo Fiat. L’ad dell’azienda, Sergio Marchionne, ha detto che in caso di sentenza favorevole al ricorso verranno prese tutte le necessarie decisioni, senza però specificare quali. Omissione dovuta, perché affermare che in tal caso verrebbe riconsiderata la decisione di investimento sarebbe stata una pressione verso il magistrato. Ma il problema resta ed è difficile far finta che non esista tale possibilità.
Quando si era alla vigilia del voto dei lavoratori, sia per Pomigliano che per Mirafiori, Marchionne non si fece scrupolo di chiarire che il loro assenso sulle regole dettate per l’accordo era conditio sine qua non per dar seguito agli investimenti. E’ difficile credere che adesso una sentenza che rimetta in discussione quelle regole passi senza conseguenze,ed e’ anche e soprattutto per questo che l’attenzione generale si è spostata dalle regole generali della contrattazione alla loro applicabilità. Perché tutti hanno toccato con mano, proprio con l’ausilio delle vertenze Fiat, che una cosa è raggiungere un accordo, altra vederlo applicato correttamente.
Le intese Fiat hanno avuto il consenso di numerosi sindacati, che rappresentano la maggioranza dei lavoratori iscritti ai sindacati, e hanno avuto l’approvazione dei lavoratori nei referendum, ma non per questo si può avere la certezza che saranno osservate nel tempo.
Ecco il motivo per cui si parla con sempre maggiore insistenza di una legge che renda valido per tutti i lavoratori un accordo approvato dalla maggioranza dei lavoratori o dei sindacati che rappresentano la maggioranza dei lavoratori. Nulla di più, del resto, di quanto aveva stabilito la costituzione all’articolo 39, non a caso però mai attuato.
Ed è lo stesso motivo per cui si parla adesso non più tanto di rappresentanza e rappresentatività, quanto di certificazione degli iscritti. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia continua a dire che serve un accordo sulla rappresentanza, e ha ragione perché la regola aurea della democrazia è avere chi ti rappresenta, tanto più nel campo del lavoro dove si sa i rapporti di forza sono per lo più squilibrati. Ma la realtà è che questo accordo è lontano mille miglia, è inutile far finta di niente. Le confederazioni sindacali non riescono a mettersi d’accordo su questa materia e sembra difficile che si possano sciogliere i nodi intricati che impediscono l’intesa. Meglio allora puntare sulla certificazione, perché in tal modo almeno si può conoscere la forza di ciascun sindacato.
Certo, per sapere quanto pesa ciascuna organizzazione sarebbe meglio poter applicare la regola del pubblico impiego, che poi era alla base dell’accordo che le confederazioni avevano trovato nel 2008, quella di miscelare due valori, quello degli iscritti e quello dei risultati alle elezioni delle Rsu. Il profilo sarebbe più preciso, perché un sindacato vale per le tessere che riesce a distribuire, ma anche per il credito che ha presso i lavoratori. Ma se un accordo non è possibile, forse è bene cercare un risultato, meno perfetto, ma comunque utile
E’ quanto ha pensato Raffaele Bonanni che non a caso nei giorni scorsi ha dichiarato che la Cisl, ribaltando una sua tradizionale posizione, potrebbe anche accettare l’idea di una legge che stabilisca regole per la certificazione, forse anche per la rappresentanza. In tal caso si saprebbe con precisione il peso di ciascuna organizzazione e un accordo valido per la maggioranza dei lavoratori potrebbe valere per tutti indistintamente. Sarebbe l’erga omnes tanto rincorso.
Meno successo invece sembra avere l’altra ipotesi circolata, quella di affermare, sempre per legge, che un accordo aziendale può sostituire il contratto nazionale, sempre che sia accettato dalla maggioranza dei lavoratori. L’idea, nata in ambienti imprenditoriali, non ha avuto il consenso dei sindacati, certo non dalla Cgil, che è contraria anche alle deroghe, ma nemmeno da Cisl e Uil che hanno sottolineato come appunto la possibilità di deroghe sia più che sufficiente a dare una risposta alle esigenze specifiche di un’impresa.
Massimo Mascini