Se c’è qualcosa che colpisce del popolo statunitense, in un Paese le cui contraddizioni sono direttamente proporzionali alla vastità del territorio, è la concessione compiaciuta che i dialoganti si riservano reciprocamente quando si affronta un qualsiasi argomento. Va bene, it’s ok, è la tua opinione, d’altra parte siamo il Paese che si fonda sulla libertà d’espressione. Sentiti libero di parlare, anche se la tua può risultare un’opinione scomoda di cui sotto sotto tu per primo hai remore a dare fiato. It’s ok (addirittura) to be angry about capitalism, esorta il titolo dell’ultimo libro del senatore socialista democratico Bernie Sanders – in Italia edito da Fazi come Sfidare il capitalismo (2024, 420 pagine, 20 euro). Quel capitalismo inventato dagli statunitensi stessi, un trade mark su cui si fonda un’intera cultura intesa in senso lato. Viene da pensare, quindi, che disconoscere il capitalismo – anzi, metterlo in discussione – significhi disconoscere sé stessi in quanto cittadini a stelle e strisce e questo un po’ fa paura, perché comporterebbe una perdita di identità – giovane sì, giovanissima, ma forte, anzi fortissima. Significherebbe, anche, ammettere una sconfitta dinanzi al mondo intero, quel mondo dinanzi al quale si sono imposti, a cui dettano le regole e che trainano. Riprendendo un motto di Riccardo Lombardi, nella prefazione al libro Fausto Bertinotti dice che l’espressione «quando gli USA hanno il raffreddore, l’Europa prende la bronchite» non ha più validità, ma anche se Sanders concentra l’intera sua trattazione entro i confini nord americani, al computo di tutto viene da pensare che i bacilli della congestione attraversino l’Atlantico (e non solo) forti e virulenti. Dismettere un certo tipo di americanità (si perdoni l’aggettivazione sovraestesa) procurerebbe un terremoto di magnitudo significativa, perché dismettere il capitalismo negli USA significherebbe dismetterlo un po’ ovunque (con buona pace dei sovranismi identitari).
Ma anche stanotte potremo dormire sogni tranquilli, perché tutto ciò non accadrà, almeno nel medio termine. Perché nonostante il senatore socialista abbia mietuto innegabili successi, soprattutto tra le file della parte più sensibile e riottosa dell’elettorato che sono i giovani e le minoranze, l’establishment vince sempre: è forte, influente, soprattutto è ricco e largamente finanziato dai miliardari del paese, e questi privilegi non si rinnegano in favore di politiche che sosterrebbero le urgenze della stragrande maggioranza degli americani, perché quella stragrande maggioranza – la classe media che “sta scomparendo” e confluendo nello strato più basso – è povera e pressoché ininfluente.
Quella argomentata da Sanders è la denuncia di un sistema malato e corrotto che contiene in sé una proposta chiara e forte, la stessa sui cui ha basato le sue due campagne per le primarie democratiche nella corsa verso la Casa Bianca (cui dedica la prima parte del libro). E se all’alba delle elezioni più importanti del mondo – che per la seconda volta vedono contrapporsi Joe Biden e il neo condannato Donald Trump – tra le questioni più spinose per gli elettori statunitensi c’è il fattore anagrafico dei due vegliardi contendenti, con i suoi 82 anni Sanders offre una prova di lucidità dinanzi alla quale molti altri gli spiccerebbero casa. Una retorica appassionata, infuocata e sincera attraversa tutte le 420 pagine del suo libro, animate da qualcosa un po’ diverso da un’ideologia che però potrebbe essere scambiato per populismo (un altro bel termine macchiato di connotazioni negative dall’isterica e impropria semantica moderna) perché fortemente radicata in una base sociale: il popolo americano, quello che lavora e sopravvive lavorando, «di busta paga in busta paga».
«Questo libro – scrive Sanders – non è solo una critica della moderna società americana e dell’übercapitalismo che plasma le nostre vite. Propone un progetto per dei cambiamenti progressisti, tanto economici quanto politici. Invoca una rivoluzione politica in cui i lavoratori si uniscano e lottino per un governo che rappresenti tutti gli americani, non solo l’1 per cento più ricco. Abbraccia la convinzione di Roosevelt che il governo degli Stati Uniti debba garantire i diritti economici a tutti i suoi cittadini». E si spinge oltre: «Negli ultimi anni della sua vita il reverendo Martin Luther King jr parlò con crescente passione di come la battaglia per i diritti civili si fosse evoluta in “una lotta di classe”. Intervenendo nel 1967 alla Southern Christian Leaership Conference di Atlanta, il premio Nobel per la pace dichiarò: “Il capitalismo dimentica che la vita è sociale. E il regno della fratellanza non si trova né nella tesi del comunismo né nell’antitesi del capitalismo, ma in una sintesi superiore”. Per raggiungere questa sintesi superiore, spiegava King: Un giorno dovremo porci la domanda: “Perché in America ci sono quaranta milioni di poveri?”. E cominciando a porci questa domanda, si sollevano interrogativi sul sistema economico, su una più ampia distribuzione della ricchezza. Ponendoci questa domanda, si comincia a mettere in discussione l’economia capitalista. E io sto semplicemente dicendo che, sempre di più, dobbiamo cominciare a porci domande sull’intera società».
Sanders tira fuori dal cappello due termini pericolosi e temibili per la cultura americana: rivoluzione e lotta di classe. Verrebbe da dire categorie dello spirito e che proprio per questo fanno paura laddove l’obiettivo dell’establishment è mantenere lo status quo, conservare un sistema che funziona solo per una risicata minoranza, ma una minoranza che conta. Sedare la critica, isolare e disunire, trasformare la legittimità del conflitto di potere in fiotti di rabbia tra ultimi e penultimi.
Sanders ha le idee chiare e non indugia a fare “nomi e cognomi” dei nemici: l’übercapitalismo, i miliardari che «non dovrebbero esistere» perché «solo mettendo fine all’oligarchia americana potremo cominciare a realizzare la promessa dell’America»: di uguaglianza, libertà e diritti. Diritti negati attraverso un sistema sanitario proibitivo in mano alle avide lobby delle assicurazioni sanitarie e delle cause farmaceutiche che trasformano l’assistenza sanitaria da diritto umano, e un privilegio; diritti negati ai lavoratori esasperati dalla corsa al ribasso del costo del lavoro, dalle delocalizzazioni, da un sistema politico che protegge gli interessi e la corsa al profitto delle imprese in tutto nella più totale impunità e anzi, agevolando la loro rapacità con interventi fiscali e normativi, depotenziando i sindacati e ostacolandone il corso. «Se la pandemia ha esacerbato le crisi economiche in cui si dibattevano le famiglie di lavoratori, il caos a cui abbiamo assistito nel 2020 ha semplicemente cristallizzato una condizione che i comuni cittadini americani vivono sulla loro pelle da decenni». In America il 60 per cento dei cittadini vive di busta paga in busta paga, e al netto dell’inflazione i salari non salgono da cinquant’anni, dice Sanders; circa 85 milioni di cittadini sono privi di assicurazione sanitaria o sottoassicurati, e ogni anno 60.000 muoiono perché non ricevono le cure mediche di cui avrebbero bisogno; c’è il più alto tasso di povertà infantile di quasi tutti i maggiori paesi del pianeta; ò’istruzione superiore è sempre meno accessibile. «Nel frattempo, mentre le famiglie di lavoratori stanno sempre peggio, per le fasce più alte della popolazione le cose non sono mai andate così bene. Oggi abbiamo una disparità di reddito e di ricchezza mai vista in precedenza, con i primi tre miliardari che possiedono più ricchezza della metà inferiore della nostra società, ovvero 165 milioni di persone. Oggi l’1 per cento che sta più in alto è più ricco del 92 per cento che sta più in basso, e gli amministratori delegati delle maggiori società per azioni guadagnano quattrocento volte la retribuzione dei loro dipendenti». Per Sanders, e lo ripete a più e più riprese nel corso della trattazione, «i diritti economici sono diritti umani e la vera libertà individuale non può esistere senza questi diritti». Ed è qui che si innesca l’urgenza di una “rivoluzione”: «Il vero cambiamento si produce solo dal basso, quando migliaia e poi centinaia di migliaia e infine milioni di persone si uniscono e chiedono un trattamento migliore. Mai dall’alto in basso. […] Nessun vero cambiamento in questo paese potrà avvenire a meno che le persone che lavorano non siano pronte a combattere per i propri diritti». Innanzitutto ricostruendo il movimento sindacale la cui storia, che «è in pratica la storia del popolo americano» è largamente ignorata dalla classe lavoratrice non è casuale. Un’ignoranza che Sanders definisce «deliberata», che «serve a indebolire i cittadini, a fargli credere che non ci sia alternativa allo status quo e al capitalismo senza freni». Quando i sindacati sono forti i governi rispondono ai bisogni dei lavoratori e le condizioni di vita della classe lavoratrice migliorano significativamente; quando esiste un forte movimento sindacale ci sono standard di vita superiori per i lavoratori e meno disparità di reddito e ricchezza. Quando invece il movimento sindacale è debole milioni di lavoratori vivono con livelli inadeguati di reddito, sanità, opportunità educative e pensioni. E a causa della loro debolezza politica sono incapaci di cambiare questa realtà. I lavoratori devono prendere in mano i propri destini, nel presente per il futuro – anche alla luce delle rivoluzioni tecnologiche e digitali che stanno trasformando le nostre vite. Soprattutto, i lavoratori devono essere messi nelle condizioni di fruire della ricchezza che contribuiscono a produrre e partecipare ai processi che ne consentono la realizzazione, entrare nei consigli di amministrazione e dare loro una quota della proprietà delle società presso cui lavorano. Una visione rigettata dai repubblicani, ça va sans dire, ma ostracizzata anche dai pavidi democratici che Sanders non lesina nel criticare nonostante il suo endorsment “per un male minore”. Rossi e Blu sono accomunati dall’asservimento agli interessi dei miliardari che finanziano le campagne elettorali e ai quali, poi, i funzionari una volta eletti non possono negare il soddisfacimento di richieste strategiche ad accrescere ulteriormente le proprie ricchezze a discapito di miliardi di cittadini in condizioni di povertà e bisogno. La democrazia negli Usa non è minacciata solo dalle derive estremiste di profili come Donald Trump, ma anche dalla debolezza di democratici come Clinton, Obama e lo stesso Biden che pure voltano lo sguardo altrove quando si tratta di ripagare quei miliardi di finanziamenti privati per le loro campagne elettorali. E le misure sociali messe in campo per assecondare blandamente il bisogno della popolazione resta solo un cerotto su una ferita aperta e ben profonda.
Ma se la visione progressista di giustizia economica inaugurata da Roosvelt non ha mai preso piede e agli Stati Uniti è stato presentato «un conto pesante» con «sindacati sempre più deboli e imprese sempre più forti, salari stagnanti e i comuni cittadini sempre più distanti da un processo politico che li ignorava», Sanders non crede che tutto sia perduto. Il suo è un «Not Me, Us!». ‘Non io, noi!’, come recita lo slogan della sua campagna elettorale del 2019: una campagna dal basso, dal popolo, per le masse verso una coscienza di classe che diventi lotta di classe; marxista nei termini più aggiornati. Una discrasia enorme se germogliante negli Stati Uniti ma, come detto, non ha nulla del connotato ideologico. È radicata nel bisogno, nella contingenza, nella connotazione prettamente materiale che sostanzia l’identità degli USA. Sanders non chiama in causa altri se non il popolo e i funzionari politici americani, ma è inevitabile non sentirsi interpellati. L’Europa conserva ancora un po’ di dignità dal punto di vista della giustizia economica (anche se è davvero faticoso ammetterlo), eppure quando si invoca la mano del mercato che tutto vede e tutto provvede ci si sente punti nel vivo. E la disaffezione dei cittadini americani nei confronti della politica, la rabbia che esplode per le politiche di austerità che soffocano e i lavoratori, le derive estremiste che manipolano il sentiment degli elettori sono le stesse che patiamo nel Vecchio Continente. Sanders parla dell’America, ma parla anche un po’ per noi – con un linguaggio talmente semplice e diretto da risultare anche un po’ scontato nei suoi contenuti. Sarà forse che scontati dovrebbero essere i nostri diritti? Che qualcosa nei recessi dei nostri istinti ci suggerisce che la nostra normalità di abusi non sia poi così normale? Che un imprinting di giustizia sociale si risvegli?
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Sfidare il capitalismo (tit. or. It’s ok to be angry about capitalism)
Autore: Bernie Sanders
Editore: Fazi editore – Collana Le Terre
Anno di pubblicazione: 2024 (ed. or. 2023)
Pagine: 420 pp.
ISBN: 979-12-5967-587-3
Prezzo: 20,00€