Sono partiti a rovescio, ora forse ci stanno ripensando: speriamo bene. Perché la priorità non è il “reddito di cittadinanza” da elargire a prescindere, quanto piuttosto un lavoro da garantire. Un conto è l’aiuto agli indigenti, tutt’altra cosa è dare un lavoro a chi non ce l’ha. Mettere insieme i due percorsi è stato un compromesso politico necessario? Certamente un’idea priva di buon senso comune. Serve un “lavoro di cittadinanza”: la possibilità che, attraverso il lavoro, ciascuno possa arricchire le proprie capacità e acquisire la pienezza dei diritti non solo di lavoratore ma di cittadino. Come è sempre accaduto. Un giovane che scambia un’occasione di lavoro e il valore aggiunto che genera con un reddito. Non con una rendita. In termini macro, un investimento sulle competenze che ha un importante effetto moltiplicatore anche sul (desueto) Pil. Non uno dei tanti sussidi. Perché di questo si tratta: favorire la nascita di nuove imprese e nuova occupazione negli ambiti in cui è utile e necessaria, persino urgente. Qui un primo (educato) appello ai partiti e alle organizzazioni sociali (imprese e sindacati). Non si riavvia il Paese difendendo solo le attività esistenti e il lavoro che c’è ancora. È un’idea sproporzionata per difetto rispetto alla crisi in atto. Si può aprire una nuova fase di crescita stabile (sostenibile, resiliente e tutti gli aggettivi di moda) solo se si estende la base produttiva e occupazionale. In modo che più giovani e più donne abbiano un’occupazione e si riducano i Neet e le diseguaglianze (economiche, sociali, territoriali). Quindi il lavoro per diventare cittadini adulti e responsabili: capaci di programmare una propria vita autonoma e non obbligati a sfruttare per anni una “cassa integrazione” di Stato o di famiglia. Anche perché ci stanno spiegando che quello che noi chiamiamo “Recovery fund” la Commissione Europea lo chiama “Next Generation EU” e a quel titolo vincola l’erogazione dei fondi previsti. Un “Next Generation Job” sarebbe un buon contributo italiano alla strategia europea.
Ma nemmeno il lavoro può essere a prescindere. Non reinventiamoci i lavori cosiddetti “socialmente utili” di nefasta memoria. Bisogna invece partire dalla domanda: cioè dai bisogni. Che sono innumerevoli e da tempo non soddisfatti: basta rifletterci un attimo (pre e post pandemia). Sono i bisogni che generano i mercati: a partire dalle esigenze delle persone e del territorio. E allora l’elenco diventa ricco e lunghissimo: istruzione, sanità, comunicazione, trasporti, assistenza, sicurezza, inclusione, nuovo abitare, la compagnia, le relazioni, una vita attiva, la cultura, lo sport, ecc. per le persone. Riduzione dei rischi idro-geologici, sismici, climatici, infrastrutturali, la riqualificazione delle periferie, la rigenerazione urbana, le aree interne, ecc. per il territorio. Un elenco di cose urgenti da fare e di settori da innovare.
Non passa giorno che qualcuno dal Governo non dica quale dev’essere davvero il centro della “ricostruzione dell’Italia”: la sanità, la scuola, le infrastrutture (quali?), la banda larga…, ecc. E poi, un minuto dopo, vengono riproposti centinaia di progetti che giacciono da anni nei cassetti dai vari ministeri. Vecchi progetti per spendere i soldi che ci saranno invece che nuove priorità da finanziare. L’obiettivo centrale della ricostruzione, la visione del Paese, deve tornare a essere la piena occupazione dei giovani e delle donne o, se si preferisce, l’ampliamento della base produttiva e di servizio. Poi vengono gli ambiti ove impiegare il lavoro per accrescere il benessere sociale. Il baricentro è il lavoro, il volano è il lavoro: la creazione di nuove imprese e nuova occupazione. Allora la macchina si rimetterà davvero in moto, altrimenti no.
La prima scelta, il baricentro, la visione, non può che essere nazionale, oggetto, come si è detto di un “Patto condiviso”. La mappa dei bisogni e delle risposte ai bisogni, la scelta delle priorità, non può che essere territoriale. Anche l’UE ci chiede una territorializzazione dei progetti e dell’impiego delle risorse pubbliche e private. Su questo anche le forze sociali, oltre al Governo, devono fare un passo in più verso il decentramento della loro azione: non basta un accordo generale, non basta una volontà nazionale in un Paese fatto di 100 città e territori autonomi (da almeno 800 anni). E non basta nemmeno demandare al “protagonismo differenziato” dei sedicenti “Governatori” delle Regioni. Se non saranno le forze sociali (imprese e sindacati) a collocare le nuove attività e il nuovo lavoro negli ambiti reali in cui si possono sviluppare, cioè nelle città e nei territori, non lo faranno certo i partiti politici che conosciamo (ammesso che sui territori ci siano ancora). E finiremo con la solita pioggia di aiuti in mille rivoli. Tocca alle forze sociali tentare di tenere insieme il vestito di arlecchino della governance italiana. Nessun altro è in grado di farlo.
Pare che finalmente Confindustria abbia intenzione di pensare al Paese e non solo ai propri soci. Così interpretiamo, sperando di non sbagliare, la proposta fatta all’assemblea annuale di un “Grande Patto per l’Italia” (cfr. Sole24ore 30,09,2020). Ben venga se è così. Ma un Patto contro la cultura dei sussidi non si fa senza le altre imprese e senza i sindacati. Allora tocca al sindacato italiano (che ha sempre guardato al Paese oltre che ai suoi iscritti) accettare la sfida e verificare se la proposta di Confindustria è seria oppure una delle tante “boutade” cui ci ha ormai abituato il nuovo Presidente. Perché continuare a difendere solo il lavoro che c’è (scelta peraltro obbligata per un sindacato!) è riduttivo: non guarda ai giovani e non guarda al futuro (nemmeno al proprio futuro). È necessario aprire una battaglia per la nascita di nuove imprese e il raggiungimento della piena occupazione. Chiamiamolo “Patto” o “Piano” per il lavoro” o “Next Generations Job” se si preferisce. Ma di questo si tratta. Del resto, ci sia di scuola il ’93: è difficile immaginare di fare buoni contratti, in una fase di emergenza, senza una prospettiva condivisa di sviluppo e di lavoro.
p.s. Anche per la questione immigrati vale la stessa logica di cui sopra: dall’accoglienza passiva (e indecente) all’integrazione a mezzo di scuola e lavoro. Qualcuno ha mai chiesto a un operaio, magari iscritto al sindacato e che vota Lega, perché ce l’ha con gli immigrati? Provarci per credere, la risposta è sempre la stessa, da anni: “Non sono razzista, ce l’ho con quelli perché li ospitiamo, li manteniamo e non fanno niente tutto il giorno”. Con la scuola e il lavoro (e il rispetto delle leggi, ovvio) anche l’immigrazione diventa una risorsa per far crescere e ripopolare il Paese. Solo aprendo questo percorso con imprese e lavoro alla luce del sole si può cancellare il lavoro nero e lo sfruttamento malavitoso che ha sostituito (come sempre accade) lo Stato latitante. Lo fanno in Germania e funziona. Perché non dovremmo riuscire a farlo anche noi?
Sergio Cofferati
Gaetano Sateriale