Sarà la prima manifestazione social della storia del sindacato, quella che sabato prossimo porterà al Teatro Brancaccio di Roma 1300 delegati del lavoro pubblico. Ma sarà, anche, un’altra tappa della campagna elettorale che la Cgil sta mettendo in campo sul referendum, puntando a coinvolgere su tre parole chiave – diritti, rappresentanza, contrattazione- non solo il mondo degli iscritti ma il più alto numero possibile di cittadini.
Tutto questo, spiega al Diario del Lavoro Serena Sorrentino, segretario generale della Fp Cgil, richiede una forte partecipazione, anche esterna al sindacato. Di qui, l’innovazione assoluta di sperimentare l’ uso a tappeto dei social.
Dunque, sabato ci sarà un hastag dedicato, #effepiù, ci sarà un live twitting che consentirà di interagire con i relatori, ci sarà una diretta Facebook, e interventi su Istagram e You Tube.
E ci saranno, naturalmente, i delegati-simbolo di molti settori: i Forestali militarizzati, i centri per l’impiego abbandonati, le province cancellate, i Vigili del fuoco sotto organico, i precari, le camere di commercio. Vertenze trasversali, simboli di un tutto poi sintetizzato nel cloud che, a sua volta, farà da sfondo all’intervento conclusivo di Susanna Camusso.
“Per noi un’ esperienza unica – dice Sorrentino- ma in questa situazione politica la differenza la fa la partecipazione: la stessa sfida sul referendum la possiamo vincere solo se convinciamo il paese. Dobbiamo costruire consenso anche dove non siamo presenti, oltre i luoghi di lavoro, sui territori, con i cittadini”.
A proposito dei referendum, non c’è un po’ il rischio che i riflettori sulla campagna referendaria finisca per schiacciare sullo sfondo la vostra Carta dei diritti, la legge di iniziativa popolare che in questi giorni state presentando ai gruppi parlamentari?
Quando abbiamo lanciato i quesiti, nella primavera scorsa, lo spirito era proprio di sostenere con i referendum la Carta dei diritti, che prevede la conferma di alcune parti della Legge 300 del ‘70, lo Statuto, ma con l’aggiunta di una gamma più ampia di tutele adeguate ai tempi. La Carta dei diritti parte per esempio dal principio di riportare i diritti in capo alla persona che lavora: vale a dire che un lavoratore può essere autonomo dipendente o precario, ma i diritti sono uguali per tutti, anche se può essere diverso il modo di fruirne. E questo a partire dalla disciplina sui licenziamenti, tema sul quale dobbiamo guardare al mondo di oggi: la gran parte delle imprese ha meno di 2 dipendenti, il regime di tutele andava quindi adeguato. Di qui e’ derivata anche la scelta di introdurre nella Carta una diversa disciplina del diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, modificando anche la disciplina dell’articolo 18 della legge del ’70, epoca in cui il lavoro era più stabile e duraturo, e si concentrava in imprese piu’ grandi di quanto accada oggi.
E tuttavia proprio per questo il quesito sull’articolo 18 è stato bocciato dalla Consulta, che lo ha ritenuto manipolativo. Non era più semplice abolire tout court la soglia, come aveva proposto Rifondazione Comunista nel referendum del 2003, che fu infatti ammesso dalla Consulta?
Le assicuro che abbiamo avuto l’assistenza dei migliori giuristi di questo paese. La nostra Consulta giuridica è composta da autorevoli giuristi. Leggeremo attentamente la sentenza della Corte ma credo che si sarebbe trovato un altro motivo per escludere il referendum sui licenziamenti.
Cosa intende dire?
Che le pressioni politiche sono state molto forti. E l’obiettivo delle pressioni era far si che il cuore Job Acts non fosse modificato, per riaffermare che la legge fatta da Renzi è legittima.
Ma secondo lei, per quale motivo Renzi ha voluto così ostinatamente l’abrogazione dell’articolo 18, un provvedimento che, alla fine, gli ha portato più grane che vantaggi?
La risposta è in un testo della Confindustria datato maggio 2014, dal titolo ‘’Proposte per il mercato del lavoro”: in quelle pagine ci sono esattamente tutte le misure poi travasate dal governo nel Jobs Act. Dall’articolo 18 ai controlli a distanza, ai voucher, ecc.
Quindi, lei dice, il Jobs act è stato scritto sotto dettatura degli industriali, ma perchè?
Credo che Renzi abbia pensato di affidarsi alla classe imprenditoriale contando sul fatto che sarebbe ripartita l’economia, le imprese avrebbero assunto, e lui avrebbe potuto presentarsi al giudizio degli italiani con buoni risultati su occupazione e crescita. Ma ha fatto male i conti, sia con la congiuntura economica, che continua ad andare male, sia con le caratteristiche della nostra classe imprenditoriale, che ha approfittato degli incentivi, ma non ha ripagato il paese con altrettanta occupazione e investimenti.
Insomma una serie di errori di valutazione, inesperienza, o cosa?
In tutte le leggi esiste una valutazione dell’impatto. Ogni legge avrebbe bisogno di un periodo di sperimentazione, compreso il Jobs act. Andava prevista la possibilità di correggerlo dopo aver valutato gli effetti dei vari capitoli: dai licenziamenti agli incentivi, ai voucher, agli ammortizzatori sociali, ecc. Invece la parola d’ordine del governo è stata ‘’non si tocca niente’’. Con risultati paradossali. Per esempio, le pare che nel pieno di una crisi dell’economia si elimina la mobilità e si riduce la cassa integrazione, come il Jobs Act prevede dal primo gennaio di quest’anno? Tanto che la Confindustria, a settembre, ha firmato assieme a noi, ai sindacati, un documento col quale avvertiamo il governo dei rischi di quel provvedimento e proponiamo di superare il Jobs Act con un diverso sistema di ammortizzatori sociali e politiche attive.
Ora vi sono rimasti comunque in campo due referendum. Sicuri che li volete fare, con tutto ciò che comporta in termini di impegno, sia economico che di risorse umane, iniziative, eccetera?
Assolutamente si.
Non c’è spazio quindi per interventi legislativi
Ripeto, il tema centrale è l’approvazione della nostra Carta dei diritti. Ciò che non condividiamo dell’attuale disciplina del lavoro accessorio, i cosiddetti voucher, è la sua liberalizzazione attuale, che in pratica lo porta a sostituire forme di lavoro dipendente. Il lavoro accessorio va regolato come in altri paesi, dove i buoni lavoro hanno il valore indicizzato e diritti equivalenti a quelli previsti dai contratti ma sono limitati al vero lavoro accessorio e occasionale.
Quindi vi andrebbero bene eventuali modifiche in questa direzione?
Noi vogliamo cancellare l’attuale disciplina del lavoro accessorio, tutta. Per poi riaprire spazio per una nuova disciplina così come l’abbiamo prevista nella legge di iniziativa popolare che abbiamo presentato. Il referendum ci da’ una buona carta da giocare su questo terreno, quello appunto della carta dei diritti, che diversamente non avremmo avuto.
Ma se intanto finisce la legislatura, la vostra legge decadrebbe. Tanta fatica sprecata?
C’è sempre l’opportunità che i gruppi parlamentari potranno riproporla nella prossima legislatura e comunque non decadrebbe automaticamente.
In ogni caso, senza la bandiera dell’articolo 18 potrebbe essere dura raggiungere il quorum. Lei che ne pensa?
Non vedo questa difficoltà. Abbiamo scelto il tema degli appalti e dei voucher come simbolo estremo della precarietà, per parlare però a tutto il mondo del lavoro. La battaglia è sui diritti ed è a tutto campo: partiamo da chi è più esposto, per dare una nuova prospettiva a tutti.
L’altra grande partita che avete in ballo è quella dei contratti pubblici. Dopo l’accordo del 30 novembre, a che punto siamo? La delega scade a febbraio, se non ricordiamo male.
Si, il governo entro il 7 febbraio deve presentare il decreto delegato sulla legge Madia, il nuovo testo unico, in coerenza con l’accordo del 30 novembre. Così finalmente sarà superata la legge Brunetta, che escludeva la contrattazione e stabiliva un sistema folle di premialità. Con l’accordo di novembre abbiamo ristabilito l’equilibrio tra legge e contrattazione sull’ organizzazione del lavoro, e rimandato ai contratti gli strumenti di valutazione, per migliorare sia le condizioni di lavoro, sia i servizi ai cittadini. Sul piano economico, l’accordo stabilisce che gli aumenti non possono essere inferiori a 85 euro medi mensili. Una volta varato il testo unico, il ministro dovrà emanare un indirizzo all’Aran, che a sua volta convocherà i comitati di settore e darà l’avvio alla contrattazione vera e propria.
Ci sarà perfetta corrispondenza tra il testo unico e i contenuti dell’accordo?
Noi nell’intesa di novembre abbiamo scritto tutto in modo molto stringente: quindi per noi e’ esigibile. Ma ovviamente solo quando vedremo il testo, che stanno ancora scrivendo, sapremo se ci sara’ stata piena coerenza tra quanto abbiamo concordato e gli impegni del governo.
Nunzia Penelope