Agostino Megale – presidente Ires-Cgil
Le dichiarazione del Presidente del Consiglio ai Tg della sera del 26 marzo dovevano avere l’obiettivo di ripristinare le condizioni “della normale dialettica democratica” tra il sindacato ed il Governo dopo che alcuni suoi ministri avevano lanciato accuse e calunnie infamanti verso il sindacato e la manifestazione della Cgil, fino alle vere e proprie teorie folli di “collusione tra sindacato e terrorismo”.
C’era già di che essere sinceramente esterrefatti dinanzi alle dichiarazioni di importanti ministri e sottosegretari, che alla Cgil rivolgono ora insinuazioni e accuse francamente ignominiose. Non può più bastare l’indulgenza – per me stupefacente comunque – verso il folklore e l’ormai leggendario cattivo gusto di Umberto Bossi, che arriva a dichiarare: “Il terrorismo è di sinistra ed è figlio della protesta sindacale”. Le dichiarazioni dell’on. Martino e del sottosegretario Sacconi nei confronti della Cgil ledono la verità e il buon senso, oltre che l’onorabilità del più grande sindacato italiano. La reazione unanime dell’intero sindacalismo confederale di fronte ad allusioni obiettivamente infamanti – a cominciare dal rifiuto a sedersi al tavolo governativo di confronto – costituisce l’unica, seria risposta a cadute di stile di questa portata.
Invece, ecco che dai Tg compare il presidente del Consiglio, che inizialmente sembra preoccupato di negare l’accostamento tra sindacato e terrorismo, rubricando il tema della collusione alle manipolazioni della stampa e alle parole in libertà di alcuni suoi ministri come persone che non contano. Ma – immediatamente dopo – lo scenario cambia. “Piazze e pistole non ci fermeranno” – così continua – realizzando un’affermazione grave e pesante quanto quella dei suoi ministri. La piazza democratica garantita a tutti i cittadini di ogni e qualsiasi idea dalla Costituzione assume la stessa valenza del piombo terrorista, riproponendo l’idea che l’esercizio di un diritto costituzionale sia equivalente alla pratica distruttiva del terrorismo.
E’ grave, di una gravità inaudita, che, a fronte dell’omicidio di Marco Biagi ad opera di terroristi, il presidente del Consiglio non solo non avverte il bisogno di stemperare i toni e di chiedere scusa anche a nome dei suoi ministri, ma rincara la dose, spacca il Paese proseguendo nel tentativo di delegittimazione di tutto il sindacato confederale. Sconfitta la linea del Governo che voleva dividere il sindacato ed isolare la Cgil per raggiungere i suoi obiettivi sul versante della modifica dell’art. 18, del mercato del lavoro, della previdenza, del fisco e della scuola, adesso il nemico del Governo diventa non più solo la Cgil, ma tutto il sindacato confederale. Sembra quasi che il Presidente del Consiglio ritenga che aver vinto le elezioni non vuol dire semplicemente avere la maggioranza in Parlamento, ma esprime un’idea del potere per la quale chi oppone un’idea diversa dalla sua, siano essi magistrati, forze politiche o sindacati, sono tutti soggetti da ridimensionare e delegittimare.
Le decisioni di Cgil, Cisl e Uil: nel confermare le manifestazioni del 27 marzo in tutte le città contro il terrorismo; lo sciopero generale di 8 ore per il 16 aprile, al fine di far cambiare la politica del Governo con lo stralcio relativo all’art. 18 e la modifica della delega sulla previdenza; dedicare il 1° maggio alla lotta al terrorismo con una grande manifestazione a Bologna, confermano semplicemente il ruolo di grande forza di rappresentanza sociale del sindacato che, con fermezza e rigore, è consapevole che il terrorismo si combatte con l’unità del Paese e di tutte le forze democratiche.
Sono importanti i richiami dei presidenti di Camera e Senato, così come i ripetuti interventi del presidente della Repubblica, volti a richiamare all’unità di tutte le forze politiche e sociali nella lotta contro il terrorismo e al rispetto che le maggioranze devono avere verso le opposizioni ed i sindacati, considerando manifestazioni come quella del 23 marzo “il sale della democrazia”. Importanti, ma non sufficienti se il Governo non ripristina un clima di dialogo fondato sul rispetto pieno e totale dei suoi interlocutori, recuperando quella cultura democratica che circa 30 anni fa di unire dalla Dc al Pc e tutto il sindacalismo confederale in difesa della democrazia.
Chi radicalizza, delegittima, lancia accuse infamanti ai suoi naturali interlocutori non ha il senso dello Stato e la sensibilità di comprendere che il presidente del Consiglio non può comportarsi come un vecchio padrone delle ferriere. Il 23 marzo, circa 3 milioni di persone – lavoratrici e lavoratori, studenti e pensionati – si sono materializzati a Roma per la più grande manifestazione mai vista nel nostro Paese. Lo hanno fatto in nome della lotta contro il terrorismo, per la difesa della democrazia, per l’affermazione dei diritti delle persone che lavorano. Promosso dalla sola Cgil ma non per questo di parte, tale evento – per dimensioni, livello di partecipazione, parole d’ordine e forme espressive – costituisce un momento fra i più significativi e qualificanti della vita sociale e politica italiani degli ultimi tempi.
L’omicidio di Marco Biagi ha riproposto di fronte al Paese la necessità di alzare la guardia affinché il terrorismo venga stroncato. Una bestia ritenuta ormai sconfitta si riprende, prima colpendo Massimo D’Antona e, a distanza di tre anni, Marco Biagi. La manifestazione del 23 marzo è giunta a tre giorni dall’omicidio, sebbene – più correttamente – andrebbe detto che l’omicidio è intervenuto a tre giorni della manifestazione fissata da tempo dalla Cgil. Una ravvicinata concomitanza dal carattere indubbiamente inquietante. L’attacco al sindacalismo confederale e alle sue politiche costituisce da sempre un tratto costitutivo e persino essenziale dell’ideologia brigatista. Tale attacco, declamato in tutte le c.d. risoluzioni strategiche, è stato tragicamente fisico, oltre che “teorico”. Da Guido Rossa, a Tarantelli, fino a D’Antona e Biagi, la scia di sangue non ci ha risparmiato.
Pur avendo idee diverse da quelle espresse da Marco Biagi nel Libro bianco e sul sistema di relazioni industriali, egli è sempre stato un interlocutore con cui confrontarsi avendo opinioni a volte divergenti e a volte convergenti. Era uomo di cultura, riformista, prima di collaborare con il Governo attuale aveva collaborato con il Governo Prodi, e prima ancora con la Cisl e con lo stesso Ires, dal 1985 al 1987, presso la struttura regionale dell’Emilia Romagna, producendo due rapporti di ricerca sui temi della rappresentanza e della contribuzione sindacale.
Oggi ancora una volta, come in tante altre occasioni della storia della Repubblica, il mondo del lavoro e le forze democratiche sono scese in campo contro il terrorismo e in difesa della democrazia. Tutte quelle persone che hanno partecipato alla manifestazione del 23 marzo avevano scolpita nel volto, nella testa e nel cuore la volontà di essere in campo, non solo per difendere i loro diritti confermando la richiesta al Governo di stralcio dell’art. 18 ma, soprattutto, per esprimere in modo netto e chiaro la condanna dei terroristi che avevano ucciso Marco Biagi.
Senza alcuna retorica mi sento di affermare che quando nel corso della manifestazione alle note del pianoforte di Michele Piovani è seguito il minuto di silenzio, di quella “città di folla” sterminata e composta in ricordo di Biagi, lì si è reso ancor più chiaro ed evidente che il terrorismo è il nemico principale di tutti i democratici.
Il sindacato non si è lasciato intimidire da quanti – sciaguratamente – ritengono di poter fissare l’agenda politica nazionale sotto il piombo infame dell’assassinio politico. Mantenere i termini sostanziali dell’agenda delle settimane che hanno preceduto l’omicidio, da parte di tutti gli attori di questa delicata vicenda, ripristinando da parte del Governo le condizioni di pieno e totale rispetto verso il ruolo, la dignità, le funzioni, del sindacalismo confederale, continua ad essere l’unica forma possibile per ricacciare il disegno terrorista nell’isolamento e nella marginalità della sua angustia criminale.
Ogni qualvolta il terrorismo si è manifestato, da parte sindacale non vi è mai stato un attimo di esitazione, di incertezza per reagire in difesa delle istituzioni, dello Stato, della democrazia nel suo complesso. E lo si è fatto attraverso il forte appello all’unità delle forze sociali e politiche tutte, senza distinzioni di colore o bandiere. La lotta del sindacato al terrorismo è ormai iscritta – a caratteri incontrovertibili – nei libri di storia del nostro Paese. Ignorarlo è un fatto che attesta o paurosa ignoranza o assoluta malafede.
Il tentativo di delegittimare la Cgil e il suo segretario generale in particolare – sperando di isolarli dal Paese e dal resto del sindacato italiano – è una scelta gravissima. In una democrazia matura il conflitto sociale, anche aspro, costituisce un fattore del tutto fisiologico della dialettica e dello sviluppo. Negare tale fisiologia – additandola come patologia, foriera del piombo terroristico – vuol dire disconoscere i fondamenti della stessa teoria politica liberale. Corpi intermedi forti, pluralismo dei soggetti e conflittualità sociale sono – ad esempio – il cardine su cui, anche sul terreno delle relazioni industriali, è cresciuto il modello anglosassone di democrazia.
A proposito di modello anglosassone, è probabile che il presidente del Consiglio avverta il bisogno di imitare la signora Thatcher nel perseguire la sconfitta del sindacato. Quel che è certo è che il nervosismo del Governo, cresciuto fino all’esasperazione dopo la manifestazione del 23 marzo, è probabilmente destinato a crescere ancora perché è normale che il sindacato agisca per cambiare la politica del Governo. Quel che si può notare è che mentre nel sindacato, nelle forze del centrosinistra, nei principali ruoli istituzionali, è fortissimo il richiamo all’unità contro il terrorismo, questo concetto non è ancora patrimonio del presidente del Consiglio e di alcuni suoi ministri.