Chissà il Truce (copyright Giuliano Ferrara) cosa intende fare per aumentare nella disperata situazione economica italiana, rappresentata eccellentemente dal governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco, per aumentare- fra l’altro- l’occupazione femminile che “gareggia” per gli ultimi posti nella UE con la Grecia? Itinerari Previdenziali ci offre una analisi aggiornatissima, attraverso tabelle che parlano con i numeri disastrosi di una comparazione nell’arco di 10 anni 2007/2017. Sono stati posti in relazione due dati: il tasso di occupazione femminile e il cosiddetto gender employment gap, ossia la forbice tra il tasso di occupazione maschile e quella femminile. In questo caso, infatti, vediamo come l’Italia e la Grecia si distanzino dal gruppo dei Paesi europei, con un gender employment gap pari a 18,2 punti percentuali per l’Italia e 18,3 per la Grecia e un tasso di occupazione rispettivamente del 48,9% e del 44,4%.
Solo Malta presenta una forbice tra i tassi di occupazione maschile e femminile più elevata dell’Italia (22,5 punti percentuali), ma rimane più vicina al gruppo dei Paesi europei per via di una percentuale di occupazione femminile più alta (57,6%). Molto più contenuti i valori negli altri Paesi del Mediterraneo: Spagna, Portogallo e Cipro, infatti, si collocano al centro con un tasso di occupazione femminile compreso tra il 55% della Spagna e il 64,8 del Portogallo e una distanza meno marcata rispetto all’occupazione maschile. Mentre i Paesi emergenti dell’Est Europa hanno livelli molto bassi di gender employment gap e tassi di occupazione femminile più alti della media dei Paesi europei: basti pensare che in Lituania a un’occupazione femminile del 70,2% corrisponde un’occupazione maschile del 70,6 %.
Una peggiore condizione occupazionale delle donne in Italia rispetto al resto d’Europa si evidenzia anche osservando i dati della disoccupazione femminile. Nell’arco temporale considerato –cioè dal 2007 al 2017-, nei Paesi europei si registrano due fasi: nella prima, post crisi, si evidenzia un aumento del peso della disoccupazione sulla popolazione attiva, che dal 2008 al 2013 passa dal 7,5% al 10,9%; nella seconda fase si registra un miglioramento del dato, fino ad arrivare a un livello di disoccupazione del 7,9% nel 2017, solo lo 0,5% in più del tasso di disoccupazione maschile. In Italia, invece, il tasso di disoccupazione – sia femminile che maschile – presenta cifre peggiori, e anche la fase di diminuzione della disoccupazione inizia successivamente a quanto avviene nella media dei Paesi europei.
Nel 2007 le donne disoccupate erano il 7,8% della popolazione attiva, nel 2013 quasi il doppio (13,8%), mentre nel 2017 sono ancora il 12,4%, ossia 2 punti percentuali in più dei disoccupati di sesso maschile, sensibilmente di più del resto d’Europa. Tale evidenza diventa ancora più grave se si considera la percentuale di donne disoccupate nella fascia di età tra i 15-24 anni, che nel 2017 è quasi il doppio del dato europeo, registrando un valore del 19,7% a fronte dell’11,1% della media dei Paesi europei . Infine, anche osservando il trend della popolazione inattiva , è possibile evidenziare un forte gap tra la situazione lavorativa delle donne europee e di quelle italiane. Pur essendo lievemente diminuito il numero delle donne che non lavora né cerca alcun lavoro, dal 2001 al 2017 la distanza tra il valore italiano e quello della media europea si è quasi standardizzato, mantenendo un livello costante di circa 10 punti percentuali: nel 2017 in Italia è inattivo il 44,1% delle donne e il 25% degli uomini, mentre in Europa è inattivo il 32,2% delle donne e il 21,1% degli uomini.
L’Italia presenta tra i più alti livelli sia di gender employment gap, ossia di distanza tra percentuali di uomini occupati e donne occupate, che di disoccupazione femminile, specie in età giovanile e, in maniera ancora più accentuata, nelle ragazze con livelli educativi più bassi. Le sfide future connesse all’occupazione generata dall’economia digitale e dalla cosiddetta Industria 4.0, possono costituire un’opportunità per le donne italiane, soprattutto laddove se riesca ad accompagnare questo percorso innovativo con adeguati investimenti nella formazione. Ad esempio, agevolare l’aumento delle donne laureate nei settori STEM potrebbe contribuire all’incremento dell’occupazione femminile e, al contempo, alla riduzione della distanza tra la condizione delle donne in Italia e quella delle donne negli altri Paesi d’Europa. L’incontro del 22 maggio a Brussel come Equal-ist EU Gender equality in formation science and tecnology ha evidenziato quanto una scelta di questo genere sarebbe lungimirante e proattiva. Ma questo Governo lo capisce?
Alessandra Servidori