Si parla tanto di semplificazione, di questi tempi. Se ne parla come di un’esigenza imprescindibile, al di là dei modi anche complicati in cui la semplificazione stessa, attraverso normative e procedure, viene di volta in volta attivata. Non voglio però soffermarmi su questo fatto: sebbene sia evidente che, se per attivare una semplificazione complichiamo ulteriormente le cose, non andiamo da nessuna parte. Voglio invece interrogarmi sul perché la complicazione piaccia tanto nel nostro mondo, al di là dei lamenti che sentiamo spesso levarsi: al punto che finiamo per ricaderci nonostante ogni tentativo di uscirne.
Il motivo principale del protrarsi delle complicazioni, dell’autoalimentarsi della burocrazia, dell’introduzione di procedure specifiche, sempre nuove, per correggere le storture delle procedure precedenti, è dato da una convinzione di fondo, che è diventata ormai mentalità comune. Si tratta di una vera e propria illusione ottica. Riteniamo ormai da tempo, anche nel nostro paese, che, se c’è qualcosa che non va, basta riformare i processi per cui questo qualcosa non va, e tutto, come d’incanto, viene risolto. Crediamo che sia sufficiente modificare il modo in cui si fanno le cose, regolamentare i processi in altra maniera – o in una maniera che regolamenti anche ciò che non è regolamentato dai processi in corso – per eliminare ogni problema. Pensiamo che occorra solo modificare una legge, o fare una legge sulla legge, o una legge sulla legge sulla legge, per procedere in maniera diretta e sicura verso la meta che dobbiamo raggiungere.
Tutto ciò certamente ha indubbi vantaggi per alcune categorie professionali: da chi opera nell’amministrazione, che così viene legittimato nella propria funzione, a chi le leggi non solo è chiamato ad applicarle, ma soprattutto le deve interpretare. E poi c’è chi queste leggi le fa. Il Parlamento di una democrazia occidentale – peraltro sempre più esautorato nel suo ruolo da un esecutivo che governa a colpi di decreti, magari per contrastare emergenze ricorrenti e mai definitivamente risolte – giustifica la propria esistenza pronunciandosi, puntualmente e rigorosamente, anche a proposito di minuzie.
È chiaro che, se le cose stanno così, la semplificazione, sia fatta per legge o per decreto, diventa sempre più un miraggio. Il proliferare di norme, spesso di difficile applicazione e in contrasto l’una con l’altra, provoca una paralisi dei processi e una fuga da ogni responsabilità. La parola “garanzia”, lo stesso ruolo del “garante” finiscono per significare più un impedimento per ciò che va fatto che una salvaguardia di ciò che è bene fare.
E tuttavia c’è qualcosa di più. L’illusione ottica di cui parlavo, infatti, è dovuta all’idea che i nostri comportamenti possono essere regolati esclusivamente da norme e non da criteri morali condivisi. Si pensa cioè che, una volta stabilite regole valide per tutti e fatto sì che esse vengano applicate, tutti saremo più buoni. Ma non serve solo guardare all’Italia per renderci conto che tale approccio non funziona. Se non c’è una motivazione di fondo, se non esistono principi condivisi di comportamento, se non s’impongono socialmente criteri morali basilari, nessuna norma, di per sé considerata, può garantire la convivenza civile.
È questo sentire condiviso che, ormai da decenni, è venuto meno: soprattutto nell’Occidente globalizzato. Invece che cercare di recuperarlo, e di educare al suo riconoscimento e alla sua messa in opera, si percorre la scorciatoia dell’imposizione normativa. Con gli esiti che sono sotto gli occhi di tutti. D’altronde viviamo sotto la dittatura della procedura. Ma di questo fatto parlerò meglio in un’altra occasione.
Adriano Fabris