Carlo Dell’Aringa
Carlo Dell’Aringa ha aperto il seminario discorso raccontando che secondo l’Ocse quello che serve all’Italia è il contratto unico a garanzie crescenti. Di questo tema, ha detto il professore, come dell’articolo 18, si parla da anni, è come un fiume carsico che ogni tanto fuoriesce, ogni tanto rimane sotterraneo. Quello che serve è risolvere il problema del dualismo del sistema italiano che vede un’entrata nel mondo del lavoro molto flessibile e un’uscita molto rigida. In questo caso bisogna evitare analisi generali che risulterebbero troppo facili e superficiali. Il mondo infatti non è “bianco e nero”, ha aggiunto. Se si studiano le statistiche dell’Ocse si scoprirà che il nostro paese ha il 46% di giovani con un lavoro temporaneo, dato che però non rappresenta un primato: infatti, la Germania ha un dato del 57%, mentre la Francia del 55%. Il vero primato italiano è quello della disoccupazione giovanile. In parole povere, ha detto Dell’Aringa, la flessibilità non spiega l’alto tasso di disoccupazione giovanile italiano: infatti, i dati della disoccupazione giovanile tedesca o francese sono molto più bassi della nostra pur avendo una flessibilità maggiore.
Altro punto focale per il professore è capire che non è detto che dove ci sia più flessibilità in uscita ci sia necessariamente un calo del precariato, come molti affermano chiedendo l’abolizione dell’articolo 18. Lo dimostrano i dati di paesi come la Gran Bretagna e la Danimarca. Se mi chiedete, ha detto, se desidero un che l’articolo 18 sia reso più flessibile, la mia risposta è “sì”, ma se mi chiedete se penso che questo farà scendere la disoccupazione, la mia risposta è “non so”. Infatti, non è vero che le imprese sotto i 15 dipendenti, che non hanno l’articolo 18, utilizzano meno contratti flessibili. Secondo gli studi dell’Ocse sul grado di rigidità del mercato del lavoro, l’Italia non è tra i paesi più rigidi. Infatti, il nostro paese non ha un’indennità di licenziamento obbligatoria forte come per esempio avviene in Germania, dove questi indennizzi sono spesso piuttosto elevati. Per l’indice dell’Ocse l’indennizzo del licenziamento ha lo stesso peso dell’articolo 18 nostrano. Ancora, potrebbe essere più importante allungare il periodo di prova che abolire l’articolo 18. In sostanza secondo Dell’Aringa più che sull’articolo 18 bisogna concentrarsi maggiormente per dare servizi a chi ha un lavoro flessibile, questione su cui l’Italia è ancora molto indietro.
Marco Mondini
Per Marco Mondini, responsabile delle relazioni industriali dell’Electrolux, quando si parla di flessibilità in uscita è necessario evidenziare la differenza tra periodi di vacche grasse o magre e tra piccole e grandi imprese. Nelle aziende di minori dimensioni l’applicazione dell’articolo 18 è molto più problematica. Nelle grandi aziende invece c’è il discorso di licenziamenti collettivi, mentre quelli individuali sono sporadici e, quando si verificano, sono difficilmente gestibili. Nelle piccole imprese c’è la vera mancanza di certezza del diritto. Il lavoro a termine aiuta le aziende a gestire le difficoltà del turnover: per questo è comprensibile l’utilizzo di contratti atipici per gestire flessibilità generalmente intese. Il problema sorge per le interpretazioni dei giudici al riguardo: di qui il ricorso a volte ampio a contratti di lavoro temporaneo dove normalmente si farebbe ricorso a contratti a tempo indeterminato. C’è un gap importante da tenere presente quando si fanno i paragoni tra Italia e Germania: infatti la retribuzione garantita dal contratto collettivo in Italia vale la metà di quello che c’è in Germania.
Pietro De Biasi
Il responsabile delle relazioni industriali dell’Ilva ha esordito dicendosi d’accordo con Dell’Aringa sul ruolo dell’articolo 18 rispetto al problema della dualità del mercato del lavoro italiano. De Biasi ha ricordato il già citato indennizzo che viene pagato in molti paesi in caso di licenziamento. Detto questo, è comunque ragionevole, ha affermato, che l’articolo 18 venga reso più flessibile e che la flessibilità di quando si entra nel mercato del lavoro sia regolata e tutelata maggiormente. In Germania, ha aggiunto se le cause per licenziamento senza giusta causa durano cinque anni le imprese non sono condannate a reintegrare il lavoratore, ma a pagare un indennizzo.
In Italia la percezione del precariato è maggiore che nel resto d’Europa anche per la mancanza di un welfare che aiuti chi ha contratti flessibili. Nel nostro paese si tutela chi ha il lavoro stabile e rischia di perderlo come dimostra l’uso che viene fatto della cassa integrazione. In altri paesi dove è tutelato anche chi ha contratti a termini vi sono persone che preferiscono queste modalità di assunzione flessibile, cosa in Italia inconcepibile. Nei contratti a termine, secondo De Biasi, bisogna abolire la casualità che genera contenziosi giudiziari infiniti e impedire la loro reiterazione all’infinito. Se si fanno queste due cose si può anche rendere meno rigido l’articolo 18. Per esempio, ha sostenuto, in Italia se un dipendente sbaglia si posso fare solo due cose, in caso di colpa media, si dà alla azienda un contentino, in caso di atto grave si licenzia. Ora si potrebbe modulare meglio questa regola rendendola meno estrema.
Tiziano Treu
Il capogruppo del Pd in Commissione Lavoro del Senato, Tiziano Treu, ha espresso la sua forte perplessità sul contratto unico, che, ha rilevato, fa molto notizia, mentre altre proposte pesano meno. In realtà, ha osservato, le radici della precarietà sono molto complesse e non si può, per risolverle, ricorrere a scorciatoie. La crescita e la qualità della crescita sono fondamentali e la precarietà del lavoro non aiuta lo sviluppo. Il problema, ha detto Treu, è la distorsione del mercato del lavoro, i falsi lavori autonomi. Un’azienda che ha il 15% di contratti a termine va bene, chi ne ha un 50% è un colabrodo.
Per risolvere il problema dell’occupazione e avvicinarsi ai sistemi europei, a suo giudizio, servirebbero politiche attive del lavoro, servizi, riduzione della durata dei processi e della burocrazia legislativa.
Per quanto riguarda l’articolo 18, Treu ha osservato che questo non è il momento giusto per parlarne perché ci sono tante altre emergenze che hanno la precedenza. Nonostante questo, ha ricordato un disegno di legge da lui stesso presentato nel 2000 che chiedeva modifiche sullo stile della Germania, con forti pre-offerte transattive che possono risolversi facilmente se il lavoratore dice sì e prende i soldi.
Giuliano Cazzola
Il vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera ha ricordato che, seppur con accentuazioni diverse, le imprese preferiscono il sistema dualistico perché più conveniente, salvo migliorare l’uso della possibilità di avvalersi degli strumenti della flessibilità che oggi creano molta confusione. D’accordo con dell’Aringa sul fatto che non esiste un solo problema, Cazzola sottolinea quanto sia importante eliminare l’illusione di risolvere il problema ricorrendo a una nuova norma. Se abrogassimo certe norme e se ne introducessero altre, dice, non ci sarebbe nessun problema. A suo avviso il contratto unico è un contratto a tempo determinato che lascia spazio a tutte le forme di rapporto di lavoro introdotte.
I posti di lavoro li crea l’economia, ha sottolineato Cazzola, per questo è importante avere una situazione dinamica che permetta alle imprese di assumere. L’articolo 18 rappresenta un ostacolo e per questo andrebbe risolto. Cazzola ha ricordato di aver presentato un progetto di legge molto semplice: estendere anche alle imprese la possibilità che ha il lavoratore di rifiutare il reintegro in cambio di una indennità. Questa situazione di maggiore equilibrio oggi è compromessa da casi in cui si abusa del periodo di prova. La flessibilità in entrata spesso viene ampliata e questo non succederebbe se si cancellasse l’articolo 18.
Cazzola si è poi riferito al collegato lavoro, che, ha detto, qualche problema lo ha risolto e meriterebbe una considerazione più benevola. E’ opportuno ordinare la materia giuridica, per evitare ritardi nei ricorsi e risarcimenti troppo esosi. L’arbitrato è stata un’occasione enorme per poter sveltire la possibilità di fare giustizia, ma il canale polemico in cui è entrato ha compromesso tutto, impedendo di trovare soluzioni ragionevoli.
L’esponente del Pdl ha anche tenuto ad affermare che il diritto al reintegro non è un diritto fondamentale, ma una modalità per tutelare il lavoratore licenziato. C’è una sentenza della Corte costituzionale, ha ricordato, che è stata chiara: il lavoratore ha diritto a una tutela, e quella risarcitoria ha la stessa utilità giuridica. Il reintegro non appartiene nemmeno a dati accessori della tutela costituzionale. Anche abrogando l’articolo 18, non si priverebbero i lavoratori della tutela.
Achille Passoni
Il tema è molto vasto, c’è molta approssimazione e semplificazione, ha detto Achille Passoni, senatore del Pd. Per prima cosa il contratto unico, a suo giudizio, è una stupidaggine, ha forte valore evocativo però semplifica questioni complesse. Seconda cosa, se si affronta il nodo degli ingressi, modificando alcune situazioni, anche il tema delle uscite diventa meno forte. Il periodo di prova non è una stupidaggine e secondo il senatore andrebbe allungato fino a un anno perché è questo elemento di rigidità che porta a enfatizzare il problema delle uscite. La riforma dell’apprendistato, in questo caso, è un altro degli strumenti che aiutano.
Il terzo punto d’affrontare è quello delle rigidità del mercato del lavoro che creano disoccupazione. Per il senatore la flessibilità in uscita va considerata con molta attenzione. Innanzitutto perché in Italia passare da un lavoro a un altro non è facile, anche per l’assenza di servizi all’impiego che invece all’estero funzionano bene.. Serve una riforma degli ammortizzatori sociali che li universalizzi per chiudere il dualismo tra chi li ha e chi non li ha. Passoni ha poi accennato alla cassa in deroga, strumento da lui sempre criticato, ma grazie al quale chi non ha diritto alla cassa integrazione, qualcosa comunque è riuscito ad averla.
Per quanto riguarda l’articolo 18, Passoni sottolinea come a suo avviso licenziare senza giusta causa sia un comportamento incivile. E se questo accade è giusto che ci sia il reintegro. Passoni esprime la sua contrarietà a risolvere il problema semplificandolo ed eliminando l’art. 18. Bisogna invece chiedersi cosa dell’articolo 18 va affrontato e migliorato, fermo restando che l’idea che non poter licenziare senza giusta causa è un questione di civiltà, un diritto di civiltà.
Giorgio Santini
Il segretario generale aggiunto della Cisl ha esordito raccontando quando nel 2007 furono contingentati i contratti a termine. Tutti allora, ha ricordato, erano convinti di fare una cosa positiva solo dopo si capì che si era creato un problema serio. Tante categorie si ribellarono dicendo alle confederazioni che nei loro settori era dannoso mettere un termine fissato per legge e rigido per tutti sul numero massimo di volte in cui si poteva assumere un lavoratore con contratto a termine. Le categorie misero in luce che ogni settore è diverso e che non è possibile generalizzare. Alla fine si fece un accordo per dire che tale norma era derogabile attraverso un accordo settoriale tra le parti. Ogni provvedimento rigido, ha detto, è sbagliato. Sull’articolo 18 non vorrei dire nulla, ha proseguito, perché oltre al suo valore simbolico, è un tema che conta poco. E’ ragionevole invece dire che in caso di licenziamento ingiustificato le aziende possano sostituire il reintegro forzoso con un congruo indennizzo. A suo avviso, sarebbe stato opportuno affidare anche questo tema all’arbitrato, ma oggi purtroppo, ha osservato, non ci si fida più delle parti sociali. Il collegato lavoro, infatti, rischia di essere lettera morta ed è un peccato. Riguardo all’articolo 8 del decreto del governo, la Cisl non è d’accordo sulla parte che permette di derogare all’articolo 18 se c’è un accordo tra le parti. Si tratta, ha sostenuto, di una norma che non è possibile mettere in pratica nella realtà di tutti i giorni. Molto più interessante è il tema del bilanciamento della flessibilità in entrata e della rigidità in uscita nel mercato del lavoro italiano. Per questo, secondo Santini, vanno tolte la casualità dei contratti e bisogna far si che siano i vari settori a regolare i tempi in cui è possibile rinnovare i contratti a termine tenendo conto delle specifiche esigenze. Un’altra cosa fattibile è creare un meccanismo premiale che in cambio della trasformazione di un contratto determinato in indeterminato permetta di avere due anni di contribuzione più bassa. Oggi questo meccanismo dà diritto solamente a un anno di minore contrattazione. Santini ha poi parlato dei voucher e ha detto che non devono essere deplorati, ma nemmeno strumentalizzati. Infatti possono a lungo andare creare qualche problema su lato pensionistico. Secondo il sindacalista è anche importante rendere meno stridente il contrasto tra i lavoratori che avendo un contratto indeterminato possono utilizzare la cassa integrazione e chi, non avendola, non dispone di tutele adeguate.
Roberto Santarelli
Per il direttore generale di Federmeccanica, affrontare il problema della flessibilità in uscita in Italia è quasi impossibile perché vuol dire fare i conti con la storia del dualismo italiano. Infatti, non si riesce a scindere la parte reale da quella ideologica. Questo tema però bisognerà prima o poi risolverlo. Secondo Santarelli non è vero dire che questo sia un tema che incide poco nella realtà. Può essere vero, ha sostenuto, per le grandi imprese, ma non per le medie e piccole sopra i 15 dipendenti. Infatti, se per le grandi si parla di mobilità, per le medio piccole si parla di licenziamenti di singole persone. Nel nostro paese abbiamo, ha aggiunto, due patologie parallele, la troppa flessibilità in entrata e la troppa rigidità in uscita.
Gaetano Sateriale
In Italia, ha sostenuto il sindacalista della Cgil, spesso si scambiano gli effetti con le cause e per di più si fa ciò con grandi sfasature temporali. Tra i primi cinque problemi del paese, ha rilevato, non c’è quello dell’articolo 18. Secondo Sateriale su un tema talmente delicato come la flessibilità è preferibile una legislazione leggera e non troppo invadente. Un punto da cui partire è quello degli ammortizzatori sociali. E bisogna poi rendere omogenei i contratti in entrata per i quali il legislatore ha forse esagerato. Infatti con troppi contratti atipici si finisce per perdere competenze nelle aziende e questo causa a lungo termine grandi problemi sul fronte dell’innovazione. Altro vulnus dei nostri tempi è che non esiste un tavolo tra parti sociali e governo sul tema della crescita. Tanto che le regioni hanno offerto in questi giorni alle parti sociali di avviare con loro un tavolo di discussione. Sateriale ha concluso auspicando il ritorno ad un contratto nazionale leggero che dia spazio alla contrattazione aziendale.
Angelo Stango
Il responsabile della contrattazione aziendale dell’Indesit ha spiegato che la sua azienda ha smesso di utilizzare troppi contratti a termine quando ci si è accorti che più che ostilità sindacali tale situazione creava malcontento tra tutti i lavoratori dell’azienda. L’Indesit, ha raccontato, ha allora deciso di fare un accordo con i sindacati che preveda lo scambio tra una maggiore flessibilità e una minore precarietà. I lavoratori a cui scade il contratto a termine vengono inseriti in una lista da cui si pescano le persone che verranno assunto quando vi è necessità. In questa fase i contratti possono essere sia a tempo determinato che non, a seconda delle esigenze dell’impresa. L’accordo prevede però anche che con 34 mesi di lavoro si passi al contratto indeterminato. L’Indesit così pone una sfida ai lavoratori: se l’azienda va bene, i posti di lavoro a tempo determinato diverranno a tempo indeterminato.
Filosofia simile, secondo Stango, quella che l’azienda ha adottato per la mobilità. In casi recenti di dismissione di stabilimenti gli operai hanno approvato con maggioranze dell’ 80% i referendum sui piani dell’azienda che proponevano, tra l’altro, di dare incentivi alle aziende che assumevano i lavoratori Indesit degli stabilimenti in chiusura. In questo modo, ha rilevato, si è dato ai lavoratori un ruolo, evitando che stiano fermi in attesa che un aiuto piova dal celo. Nella mia esperienza, ha poi concluso, il ruolo degli enti locali non è sempre stato ottimale. Per esempio sulla formazione ancora non si capisce che bisogna prediligere corsi di formazione che corrispondano ai reali bisogni delle aziende.
Nazareno Mollicone
Per il segretario confederale dell’Ugl la questione della flessibilità in uscita va affrontata separando il livello collettivo da quello individuale. Mentre nel primo caso si fa riferimento anche alla cassa integrazione e agli ammortizzatori sociali, nel secondo la situazione è regolamentata dall’articolo 18. Negli anni questo articolo ha assunto valore simbolico ed è stato strumentalizzato da entrambe le parti. Dagli ambienti culturali liberisti che vedevano bloccata la libertà dell’azienda, e questo ha portato alla moltiplicazione delle tipologie di contratti che hanno permesso di assumere in tanti modi diversi così da sopportare bene la situazione. E dalla parte sindacale, che ha sempre difeso l’art. 18 che si applica quando c’è licenziamento immotivato, anche se nella realtà non è cosi perché il datore di lavoro può ostacolare il lavoratore in molti modi. La situazione si è poi ancora più complicata a causa di alcune sentenze della magistratura che hanno applicato l’articolo a casi che non lo richiedevano.
In questa fase di crisi e di globalizzazione il vero problema non è tanto vedere se c’è un diritto in più o in meno, ma mantenere l’azienda in Italia e il contratto aziendale serve a questo. Del resto, l’abolizione dell’articolo 18 susciterebbe reazione in tutti gli ambienti. Possono però essere fatte modifiche che permettono all’impresa di allungare ulteriormente il periodo di prova per completare la preparazione del lavoratore. Il punto è capire che strada seguire nel caso in cui ci sia licenziamento immotivato. Ancora, è necessario trovare sistemi di soluzione del conflitto più celeri, che prendano in considerazione altre ipotesi oltre al reintegro.
Alfredo Pasquali
Per Alfredo Pasquali, di Confindustria energia, l’articolo 18 è la punta di un iceberg, che rappresenta un settimo del peso di tutto la massa di ghiaccio. Il vero problema da risolvere, a suo giudizio, è il concetto di flessibilità, non solo nel momento dell’assunzione, ma anche durante il rapporto di lavoro. Il punto sta nel capire cosa si intende per giusta causa. Il lavoro viene ancora considerato una cosa sacra, che si fatica ad ottenere e, una volta ottenuto il posto, si è restii a lasciare. Il mercato del lavoro sembra più dominato da un codice disciplinare di stampo militarista. Una volta che sei entrato, se poi non rubi e non commetti un reato non rientri nelle giuste cause. Il problema vero è la flessibilità. L’azienda, infatti, è sottoposta a una competizione estrema. Per questo il concetto di giusta causa è molto opinabile. Ci sono regole, ma alla fine potrebbe essere più equo fare altro.
Arturo Maresca
La situazione di grave crisi economica pone il problema dell’occupazione giovanile al centro delle questioni. Non c’è dubbio, a suo avviso, che il tema della flessibilità in uscita sia collegato a quello della flessibilità in entrata. Le imprese pur di sottrarsi alla stabilizzazione ricorrono a contratti di vario tipo, da quelli a termine alle partite iva. Il problema va affrontato scomponendo il problema tra ingresso dei giovani, esodi e licenziamenti.
Rispetto al primo punto, l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, per il professore di diritto del lavoro alla Sapienza di Roma, lo strumento più adatto è l’apprendistato, è lì che bisogna puntare. Questo strumento fa impallidire il contratto unico, è uno strumento perfetto perché è un contratto a tempo indeterminato, riduce i costi contributivi, consente il licenziamento alla fine del lavoro, cosa che poi le imprese non fanno dopo aver investito sul lavoratore per 4 anni. Se si riuscisse a farlo funzionare bene, sarebbe possibile tagliare tutte quelle forme di precarietà, dai contratti a termine, ai tirocini, alle partite iva, ai rapporti di lavoro camuffati. Per quanto riguarda la flessibilità rispetto agli esodi, le regole sulla mobilità volontaria forniscono soluzioni concrete, finché abbiamo pensioni d’anzianità. Poi c’è il licenziamento individuale. La questione sull’articolo 18 è mal posta dal punto di vista teorico. L’attenzione è tutta sul regime sanzionatorio quando invece il problema sta nelle causali.