Avanti la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sono stati proposti due ricorsi, di due diversi lavoratori, sulla corretta interpretazione da dare alla direttiva n. 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, nonché degli articoli 10 e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il primo ricorso è stato proposto contro un’associazione tedesca che gestisce numerosi asili nido, che ha sospeso dalle sue funzioni la lavoratrice a seguito del suo rifiuto di rispettare il divieto imposto dall’azienda ai suoi dipendenti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di natura politica, filosofica o religiosa, quando sono a contatto con i genitori o i loro figli. Si tratta di un’associazione che gestisce un notevole numero di asili nido con sede in Germania, presso i quali lavorano oltre 600 dipendenti e sono iscritti circa 3.500 bambini. Essa è apartitica e aconfessionale. Per statuto questa associazione di asili nido, al fine di garantire lo sviluppo individuale e libero dei bambini, per quanto riguarda la religione, le convinzioni personali e la politica, prevede che collaboratori sono tenuti a rispettare rigorosamente l’obbligo di assoluta neutralità nei confronti di genitori, bambini e altri terzi. L’Associazione persegue una politica di neutralità politica, ideologica e religiosa nei confronti degli associati e degli iscritti.
Sul luogo di lavoro i collaboratori, nel rispetto dello statuto, non possono compiere nessuna esternazione di tipo politico, ideologico o religioso nei confronti di genitori, bambini o terzi; non possono indossare nessun segno visibile relativo alle loro convinzioni politiche, personali o religiose; non possono compiere nessun rito derivante da dette convinzioni alla presenza di genitori, bambini o terzi. Conseguentemente in esecuzione di questo obbligo di neutralità i vari collaboratori non possono indossare “il crocifisso cristiano, il velo musulmano o la kippah ebraica”.
Una collaboratrice, violando queste disposizioni dell’azienda, si è presentata sul luogo di lavoro indossando il velo islamico. Al suo rifiuto di toglierlo è stata sospesa dal lavoro. La lavoratrice dopo la revoca della sospensione si è ripresentata sul luogo di lavoro nuovamente con il velo. L’associazione di fronte a questo comportamento trasgressivo ripetuto ha applicato alla lavoratrice inadempiente una sanzione disciplinare. La lavoratrice ha contestato la sanzione lamentando di essere stata discriminata in ragione del suo sesso femminile evidenziando che il divieto riguarda soprattutto le donne che provengono da un contesto di immigrazione. La discriminazione, pertanto, è anche per ragioni etniche e religiose.
Il secondo ricorso è stato proposto, invece, da un altro lavoratore contro una società, anch’essa tedesca, che gestisce una catena di drogherie, che ha imposto agli addetti alle mansioni di cassiera di astenersi dall’indossare, sul luogo di lavoro, segni vistosi di natura politica, filosofica o religiosa. A seguito della violazione del divieto di indossare il velo islamico, la lavoratrice è stata assegnata ad altre mansioni che le consentivano di portare il velo. Ma la lavoratrice si è opposta contestando il provvedimento aziendale. L’azienda, di fronte all’insubordinazione, l’ha sospesa dal lavoro. L’azienda ha reiteramente ingiunto alla lavoratrice di presentarsi sul suo luogo di lavoro priva di segni vistosi e di grande dimensione che esprimessero le sue convinzioni di natura religiosa, politica o filosofica. Contro questo provvedimento la lavoratrice ha fatto ricorso al giudice tedesco sostenendo l’invalidità dell’ordine datoriale. A sostegno di questa sua iniziativa ha invocato la libertà di religione che prevale su ogni altra esigenza organizzativa del datore di lavoro.
I giudici tedeschi hanno ritenuto, per la particolarità della materia e l’esistenza delle varie direttive, di dover coinvolgere la Corte Europea ponendole questi quesiti:
«1) Se una direttiva unilaterale del datore di lavoro che vieti di indossare qualsivoglia segno visibile relativo alle convinzioni politiche, personali o religiose discrimini i lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di obblighi religiosi di coprirsi, in modo diretto e a causa della loro religione, ai sensi dell’articolo 2, [paragrafo 1 e paragrafo] 2, lettera a), della direttiva [2000/78].
2) Se una direttiva unilaterale del datore di lavoro che vieti di indossare qualsivoglia segno visibile relativo alle convinzioni politiche, personali o religiose discrimini una lavoratrice che indossa il velo in ragione della sua fede musulmana, in modo indiretto e a causa della religione e/o del sesso, ai sensi dell’articolo 2, [paragrafo 1 e paragrafo] 2, lettera b), della direttiva 2000/78.”
La Corte Europea, esaminando i due casi, preliminarmente, ha affermato che la direttiva europea n. 2000/78 deve essere interpretata nel senso che “una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o le convinzioni personali, derivante da una norma interna di una impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religione, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti, a condizione che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in considerazione segnatamente le aspettative legittime di detti clienti o utenti nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita in modo coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un divieto siffatto.”
Dopo aver esaminato la legislazione tedesca e la direttiva europea che disciplina la materia, la corte europea ha statuito che:
“L’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che una norma interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non costituisce, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in applicazione di precetti religiosi, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di detta direttiva, ove tale norma sia applicata in maniera generale e indiscriminata. 2) L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante da una norma interna di un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti, a condizione che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in considerazione segnatamente le aspettative legittime di detti clienti o utenti nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita in modo coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un divieto siffatto. 3) L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una discriminazione indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali derivante da una norma interna di un’impresa che vieta, sul luogo di lavoro, di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose allo scopo di assicurare una politica di neutralità all’interno di tale impresa può essere giustificata solo se detto divieto riguardi qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Un divieto che si limiti all’uso di segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose vistosi e di grandi dimensioni è tale da costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, che non può in ogni caso essere giustificata sulla base di tale medesima disposizione. 4) L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che le disposizioni nazionali che tutelano la libertà di religione possono essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva, nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. “Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 15 luglio 2021.
Biagio Cartillone