L’atlante politico del post-voto disegna un Italia ritornata indietro allo Stato pre-unitario. Al centro Sud (dalla Sicilia alle Marche) il regno borbonico con Luigino Di Maio nelle vesti di re delle due Sicilie.
A Nord il Regno Lombardo Veneto e ducati annessi nelle mani del feroce imperatore Matteo Salvini; il Gran ducato di Toscana sotto il tacco spuntato del collerico Matteo Renzi e lo Stato della chiesa con il bonaccione Zingaretti nei panni del papa re.
Nulla resta del processo unitario e il vecchio auspicio di Massimo D’Azelio “Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani” è rimasto un opera incompiuta insieme alle tante altre che popolano il desolato panorama delle periferie delle nostre città.
L’atlante politico disegna inoltre una nuova linea gotica del sentiment popolare che, come la vecchia impresa di fortificazione tedesca, taglia a metà il paese
Nel mondo al di sotto, il desiderio imperioso dei popoli del sud del riscatto dalla miseria con il rimpianto delle vecchie pensioni di invalidità farlocche con cui una famiglia tirava avanti aggiungendo al sussidio dello stato qualche lavoruccio in nero e un po’ di campagna e baratto.
Il reddito di cittadinanza è la nuova speranza di riuscire per lo meno a vivere senza indigenza e la colonna sonora di quel legittimo desiderio ha la malinconia rievocativa del “se potessi avere mille lire al mese” che negli anni ’40 cantava Gilberto Mazzi.
Nel mondo al di sopra, il timore, intriso di rabbia, delle partite IVA e dei padroncini di terra padana di vedersi portare via dall’immigrato quel benessere faticosamente raggiunto e strappato con le unghie e coi denti agli imperi finanziari e alle banche. Un sentimento diffuso che ha azzerato il consenso verso cinque stelle e forza Italia gonfiando di voti la rinata Lega Nord che di quelle emozioni è la plastica e ben riuscita rappresentanza politica.
C’è anche dell’altro nel panorama che il voto lascia vedere il filigrana dietro le grandi opposizioni delle campagna elettorale. Come nella prima repubblica si vince gridando al nemico, ma si governa cercando le convergenze parallele. Con un ulteriore paradosso messo in evidenza con molta efficacia da Vittorio Zucconi
Il partito democratico, il grande sconfitto delle tornata elettorale, è ora ritornato centrale come lo era il PSI di Bettino Craxi. Tropo piccolo per governare da solo ma troppo grande per non richiederne i voti. E così l’astuto Di Maio, ora nelle inedite e apprezzate vesti del pacificatore, apre al partito a cui deve la propria fortuna elettorale per averne dilaniato le carni. E lo stesso fa il più suadente Salvini che, dopo avere rottamato Berlusconi, ne segue le orme riscoprendo nella sua Lega un antico legame con chi nel passato del mondo produttivo del Nord aveva la rappresentanza.
Ritorni della storia dunque da non guardare con eccessiva sufficienza.
Il paese ha comunque bisogno di un governo e un governo si aspettano gli elettori che, in controtendenza rispetto al passato, hanno ripreso confidenza con la cabina elettorale, avanzando richieste precise.
Promesse elargite a piene mani e che probabilmente resteranno in larga misura inevase come quasi tutto nel paese. Da lì tuttavia bisogna ripartire perché l’Italia non è la Germania che può andare avanti per via inerziale spinta da una forza che come un gaiser si sprigiona dalla profondità del suo tessuto produttivo.
Resta da vedere cosa uscirà fuori da questo impasto mal riuscito, Il nuovo Parlamento, che il diabolico rosatellum ha creato perché il paese restasse nella palude. Un “muoia Sansone con tutti i filistei” che non ha portato fortuna ai suoi ideatori, i cinici tessitori di riforme elettorali targati PD, e che ora rischia di portare sfortuna anche al paese.