“Il nostro obiettivo più importante è quello di far tornare la gente a lavorare. Non è un problema irrisolvibile se affrontato con saggezza e coraggio”. Queste venticinque parole furono pronunciate, il 4 marzo del 1933, da Franklin Delano Roosevelt nel discorso di inaugurazione del suo primo mandato alla Presidenza degli Stati Uniti.
Per spiegare cosa Roosevelt intendesse, basta ricordare che, nel corso dei primi cento giorni della sua presidenza, con il sostegno del Congresso, furono lanciati l’Agricultural Adjustment Act e il National Industrial Recovery Act. Il New Deal fu, come è noto, l’espressione di una visione di largo respiro, indirizzata a tirar fuori gli Stati Uniti dalla Grande depressione del 1929 e attuata attraverso una serie di piani di politica economica, industriale, agricola, occupazionale, sociale; sussidi inclusi. Una visone indirizzata, per l’appunto, a “far tornare la gente a lavorare”. Non fu un perfetto successo, ma si può dire che cosa fu: un piano.
Tre anni più tardi, nel 1936, John Maynard Keynes pubblicò la sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Keynes aveva osservato le conseguenze della Grande Depressione. E ne aveva tratto la conclusione che, in una situazione segnata da forte disoccupazione, carenza di domanda e bassa produzione, lo Stato dovesse effettuare robusti investimenti, stimolando gli attori del mercato allo scopo di ottenere la crescita dei consumi e dell’occupazione.
Ora, mentre cerchiamo di orientarci tra i 258 articoli del decreto definito “rilancio” – al quale è stata assegnata una dote che produce un indebitamento corrispondente a qualcosa come due leggi di Bilancio – ci imbattiamo in una congerie di bonus e misure emergenziali per sostenere i redditi che hanno tutti una caratteristica: sono destinati a finire presto. E incontriamo anche misure e dismisure come il finanziamento per tre miliardi all’Alitalia a fronte di quello da un miliardo e mezzo per l’istruzione.
Quel che è difficile da rintracciare in questo decreto è una visione. Una semplice, coerente, idea di politica economica, industriale, per l’occupazione. Insomma, il “rilancio”.
Sì, ci sono quegli stimoli che potranno spingere un po’ l’edilizia. E, al tempo stesso non c’è più l’Industria 4.0, l’ultimo piano di politica industriale che questo paese abbia visto. Né c’è il Green New Deal, nuova bussola dell’economia dell’Unione Europea. Né un indirizzo per la partecipazione dell’industria italiana alla corsa per la creazione di quei “campioni europei” che dovrebbero permettere all’Unione di guadagnare competitività, nei confronti di Cina e America, in mercati determinanti come quello dell’automotive.
Per carità, anche quei due giganti se la vedono brutta: il Pil cinese soffre e l’occupazione negli Usa è in caduta libera. Ma vi sono domande che restano senza risposta di fronte all’indebitamento che il governo sta caricando sulle spalle e sul futuro dei contribuenti italiani: e poi, quando i sussidi saranno esauriti, cosa succederà? Insomma: qual è il piano?
Vittorio Liuzzi